domenica 30 ottobre 2011

L'ultima intervista rilasciata da J.Hillman

La Stampa del 29 Ottobre pubblica questa straordinaria intervista di J.Hillman , raccolta al suo capezzale da Silvia Ronchey.
E' la finale testimonianza di come la consapevolezza della Vita confini necessariamente con quella della Morte. James ci entra "ad occhi aperti", con la lucidità e la profondità con cui ha attraversato tutta la sua esperienza di vita.
La riporto per intero:

            "Sto morendo ma non potrei essere più impegnato a vivere"


Così aveva scritto, nella sua ultima mail. E così l'ho trovato, quando sono andata a salutarlo per l'ultima volta nella sua casa di Thompson, nel Connecticut, pochi giorni prima che morisse: il fantasma di se stesso, ma incredibilmente vitale; il corpo fisico ridotto al minimo, quasi mummificato, tutto testa, pura volontà pensante. Restare pensante era la sua scommessa, la sua sfida. Per questo aveva ridotto al minimo la morfina, a prezzo di un'atroce sofferenza sopportata con quella che gli antichi stoici chiamavano apatheia: un apparente distacco dalla paura e dal dolore che traduceva in realtà un calarsi più profondo in quelle emozioni. L'unica cosa che contava era analizzare istante dopo istante se stesso e quindi la morte come atto oltre che nella sua essenza. Se Steve Jobs, morendo, ha lasciato detto «stay hungry, stay foolish», l'ultimo insegnamento di James Hillman può riassumersi così: «Resta pensante» fino all'ultima soglia dell'essere
Il tempo qui sembra fermo, le lancette puntate sull'essenza ultima.


«Oh, sì. Morire è l'essenza della vita».

Com'è morire?
«Uno svuotamento. Si comincia svuotandosi. Ma, si potrebbe chiedere, che cos'è o dov'è il vuoto? Il vuoto è nella perdita. E che cosa si perde? Io non ho “perso” nel senso comune di “perdere”. Non c'è perdita in quel senso. C'è la fine dell'ambizione. La fine di ciò che si chiede a se stessi. E' molto importante. Non si chiede più niente a se stessi. Si comincia a svuotarsi degli obblighi e dei vincoli, delle necessità che si pensavano importanti. E quando queste cose cominciano a sparire, resta un'enorme quantità di tempo. E poi scivola via anche il tempo. E si vive senza tempo. Che ore sono? Le nove e mezza. Di mattina o di sera? Non lo so».

E' una condizione perseguita dai mistici.
«Oh sì, dall'induismo per esempio, gli induisti ne scrivono. Ma in questo caso è tutto unwillkürlich, involontario. E' accidentale».

Comunque non credo non ti sia rimasta nessuna ambizione.«Davvero?» [Apre di scatto gli occhi finora socchiusi, con un lampo azzurro di sfida.]

Ti resta quella degli antichi romani: lasciare il tuo pensiero ai posteri.
«E' vero. E' molto importante per me che il mio pensiero rimanga. Ma la parola posteri mi rimanda a postea, a un dopo, a un futuro, in cui non voglio essere trasportato adesso».

Perché esisti solo al presente.
«Sì, e voglio tenere chiusa la porta con il cartellino “Exitus”. La potrò aprire a un certo punto, quando capirò come farlo nel modo giusto. [Tenta di scuotere il capo, ma il dolore lo ferma]. Non saprei ora come aprire quella porta senza che ne dilaghi una folla di creaturine che vogliono qualcosa. Molti degli antichi filosofi ne sono stati catturati, probabilmente tu sai chi lo è stato più degli altri. Io non voglio. Il mio compito è dialogare e tenere il dialogo aperto su quel che accade momento per momento. Il mio è piuttosto un reportage. Dal vivo. Dal vero»

Non potrebbe essere altrimenti: o non fai il reportage - come la maggior parte di chi si trova nella tua condizione - oppure ciò che riferisci è la verità. E penso che tutti siano affamati di questa verità.
«Tutti sono affamati di morte. La nostra cultura lo è. Io, qui, come vedi, ne parlo continuamente. Ma non la esprimo. Perché nella morte io sono impegnato. Non voglio uscirne, per esprimerla, per vederla o guardarla in trasparenza. Non cerco di formularla. Ogni tanto si realizza qualcosa che mi porta in un altro luogo dal quale posso osservarla. Magari anche di riflesso. Ogni sorta di cose si riflettono in questa introspezione, ma non l'attività essenziale di ciò in cui sono impegnato [ossia l'atto del morire]. Il tempo che mi dò è il qui e ora».
Capisco
«E' molto importante ciò che semplicemente il giorno ci dà, ogni singola cosa che si realizza durante il giorno. La persona, l'osservazione che ha fatto, l'odore dell'aria in quel momento. E queste cose hanno bisogno di accettazione, di ricognizione, di riconoscimento... Adesso non ho ancora la parola giusta. Ma trovare le parole è magnifico. Trovare la parola giusta è così importante. Le parole sono come cuscini: quando sono disposte nel modo giusto alleviano il dolore».

E il dialogo aiuta a trovarle?
«Sì, e mi rende così felice. Sai, da qualche tempo le persone vengono da me come se avvertissero in me il richiamo di quel vuoto di cui parlavo. Se io non fossi così vuoto, non verrebbero».

Come un risucchio che attira.
«Dev'essere così».

O una condizione di saggezza?
«No. Una calamita. Cercano qualcosa cui attaccarsi. Vogliono qualcosa, ed è la mia capacità di cristallizzare e formulare. Due parole che sono usate per una delle ultime fasi dell'alchimia. Cristallizzazione e formulazione. Le persone sono in pessima forma di questi tempi, il mondo è in pessima forma. E in qualche modo il mio avere trovato qualche solidità li attrae.

Ma non parlavi di vuoto?
«Sì. Il mio stato di svuotamento esprime qualcosa che non avevo finora realizzato e che può riassumersi nella parola coagulatio. Due princìpi governano tutti i processi alchemici: la coagulatio e la dissolutio. Coagulatio in alchimia significa rapprendersi in un punto, diventare più solidi, più definiti, formati, dotati di morphe. Ora l'intero processo che sto attraversando è la coagulazione della mia vita nel tempo. Ma la coagulatio è sempre seguita dalla dissolutio. Che è esattamente il contrario: dissoluzione, le cose che si separano, si sciolgono, perdono la loro capacità di definirsi. La cosa interessante è che improvvisamente questo spiega i miei sintomi. Non faccio che pensare, morbosamente, che sto affondando sempre di più, che mi sto dissolvendo. Ma le due cose, dissoluzione e coagulazione, sono inscindibili. Non è fantastico? Non ci avevo riflettuto finché non mi è venuta per la prima volta in mente la coagulatio. E la rubefactio, che permette alla bellezza di mostrarsi. Così ora sono una persona diversa. Non avevo mai percepito queste cose dentro di me. O non le avevo mai riconosciute. Prima, non avevo mai saputo chi ero».

Da dove viene questa consapevolezza?
«Oh, decisamente dal morire».

Ti dici «impegnato nel morire». Vuoi arrivare alla morte in piena consapevolezza. Ma, come diceva Epicuro cercando di spiegare perché non bisogna averne paura, «se ci sei tu non c'è la morte, e se c'è la morte non ci sei tu». «Esatto».

Mi sto domandando se allora questo tuo morire non sia un'intensificazione del vivere. «Assolutamente sì, non c'è il minimo dubbio. Quando la morte è così vicina la vita cresce, si esalta. Ne sono certo. Ma non vorrei essere presuntuoso».

In che senso?«Orgoglio, arroganza, hybris: attenzione a non peccare contro gli dèi. Mai, in nessuna occasione».

Certo, ma non credo che la tua sia hybris. Credo sia puro coraggio affrontare la morte a occhi aperti. E' raro, ed è per questo che il tuo reportage è così prezioso.«E' prezioso, sì. Mi sto rendendo conto di qualcosa che non avevo mai realizzato prima. Ha a che fare con un certo argomento di cui Margot ed io dovremo parlare prima, una certa decisione che io potrei prendere. Sai, nel mondo di oggi mi è consentito, come lo sarebbe stato nel mondo greco».
Capisco a cosa alludi.
«Ma il punto è che dovrei mettermi nelle loro mani, e sarebbero loro a decidere. In qualche modo io sarei il loro strumento, non loro il mio. Intendiamoci, lo spero. Ma sarebbero loro a informarmi quand'è il mio momento. Oppure potrei prenderlo nelle mie mani, che sono lo strumento classico: la mano [Hillman fa il gesto di trafiggersi il petto], o la vasca da bagno, come Petronio. Ma il fatto è che l'intera cerimonia - perché la definirei così - non è ancora lontanamente immaginabile. O meglio, l'idea è immaginabile, dato che ne sto parlando ora. Ma c'è un'altra idea, sempre antica, che in qualche modo contrasta. Primum nil nocere. Primo, non fare del male. [Si tratta del giuramento di Ippocrate.]

E allora, qual è la decisione migliore? che ne pensi?
Gli antichi stoici dicevano, a proposito del suicidio: “C'è del fumo in casa? Se non è troppo resto, se è troppo esco. Bisogna ricordarsi che la porta è sempre aperta”. Evidentemente, la tua casa non è ancora piena di fumo. Quando lo sarà, lo sentirai.
«Riuscirò a sentirlo?»

Forse ti sentirai confuso. Quello che so è che ora stai respirando, non c'è fumo nel tuo cervello, nella tua psiche, nella tua anima. Quando ci sarà, forse prenderai in considerazione il suggerimento degli stoici. Non sei forse un pagano? non hai allenato per tutta la vita il tuo istinto a percepire le epifanie degli dèi?
«Oh sì che sono un pagano. E' questo il punto».

E' pagana anche la tua percezione della bellezza, del grande teatro verde della natura che hai scelto per questa tua ars moriendi, questa tua arte pagana del morire che è anche, o anzi è soprattutto un'arte estrema del vivere.«Non mi piace definirla un'ars moriendi. E' piuttosto un'arte dello stare in prossimità dell'essere, tenersi più stretti possibili a ciò che è».


 


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venerdì 28 ottobre 2011

Addio, James Hillman

venerdì 28 ottobre 2011


La morte di un grande Maestro

J.Hillmann è stata una delle più importanti voci della  Psicologia Analitica, dopo C.G. Jung.
Per la mia storia personale e professionale le sue opere  sono state una indimenticabile e  appassionante lettura per  la modernità del suo pensiero e la profondità delle sue riflessioni.
Avere avuto  l'occasione di incontarlo personalmente per il suo ottantesimo compleanno , festeggiato qui a Catania  con gli amici e i  colleghi dell'associazione Crocevia di cui faccio parte, in occasione dell' uscita editoriale "Caro Diario"  di R.Mondo e L.Turinese ( 25 scambi epistolari con J.Hillman),  ha aggiunto nella mia memoria alla conoscenza del suo pensiero, il fascino e l'eleganza della sua figura.
Di quell'incontro voglio ricordare le mie impressioni nel commento che scrissi allora , per salutare ancora quel "bravo, bravo ragazzo", quell'indimenticabile e anticonformista  cantore dell'Olimpo che ha lasciato nell'Anima del mondo e nella cultura psicologica un patrimonio di immensa ricchezza e poesia.


Gli 80 anni di Hillman a Catania
Nella primavera siciliana, ancora instabile ed imprevedibile, dentro la cornice barocca di una città vulcanica , focosa e nera come Catania, in una terrazza affacciata sulle cupole del centro storico tra le quali scorgere in lontananza il mare, un magnifico vecchio proveniente dall’altra parte dell’oceano, insieme alla sua famiglia molto americana , si è lasciato festeggiare, corteggiare, applaudire in occasione dei suoi 80 anni. I suoi appassionati cultori, studiosi, ammiratori non gli hanno risparmiato nulla del classico rituale di ogni ragguardevole compleanno: doni, ospitalità, banchetto e canto propiziatorio perché effettivamente lui, ad ottant’anni, è veramente un bravo, bravo ragazzo.
La festa, organizzata in suo onore dall’ Associazione culturale Crocevia, è cominciata nel primo pomeriggio quando, nell’aula dei Benedettini dove già una volta la nostra città aveva avuto il piacere di ascoltarlo, una folla di estimatori si è numerosamente raccolta per incontrarlo ancora, ascoltarlo ancora. Anche se, questa volta, è stato lui ad ascoltare i presenti e non senza una certa delusione da parte di chi si aspettava dal grande vecchio altri stimoli, altre emozioni, altre imprevedibili considerazioni. Invece Lui, con ineffabile sorriso, a metà tra il compiaciuto e il meravigliato, un po’ stupito un po’ divertito, ha accolto le manifestazioni di quanti hanno voluto esprimergli il riconoscimento del suo lavoro, della sua opera, della sua intelligenza: Riccardo Mondo, innanzi tutto, artefice dell’incontro; il Sindaco di Catania che, con l’ufficiale banda tricolore ha salutato l’evento nella consapevolezza dell’importanza dello stesso per la sua città; incontro che fra l’altro – come preannunciato in quella medesima occasione – segna la nascita del nuovo Istituto Mediterraneo di Psicologia Archetipica il cui Presidente Onorario è proprio James Hillman.
E poi gli altri, studiosi, lettori del mondo psicologico e analitico come di altre discipline che, a partire dal nostro presidente Fulvio Giardina hanno voluto sottolineare il grande contributo che l’opera hillmaniana ha fornito alla contemporanea comunità degli psicologi, attraverso la potenza delle sue immagini e l’acutezza della sua critica.
Luciano Perez, psicologo analista del Cipa, ne ha richiamato l’importanza per la continuazione e la riflessione sull’opera del grande Maestro, dal cui terreno si inoltra innovativamente un pensiero libero da schemi preordinati, ma che affonda nel cuore della complessità junghiana, irritando spesso i suoi seguaci più ortodossi, e contemporaneamente incantandoli. In questa festa nella ex Magna Grecia, così viva nelle opere di questo autore, con i suoi dei e le sue mitiche figure, non è mancata nemmeno la lingua originaria, il greco antico per l’appunto, che Lucia Arsì – umanista socia di Crocevia, ha voluto richiamare leggendo in lingua alcuni brani scelti da Epicarmo, Plotino , ed altri ancora.
Non sono mancati gli illustri assenti, come Franco Battiato, autore di un ormai noto ritratto di James Hillman, che, atteso fino all’ultimo al dibattito, non ha rinunciato più tardi a porgergli i saluti brindando insieme a lui al valore dell’arte e alla libertà della conoscenza.
Le conclusioni di questo particolarissimo incontro le ha tirate Luigi Turinese, medico omeopata e psicologo analista dell’Aipa, curatore insieme a Riccardo Mondo del più volte citato Caro Hillman: uno dei due gentiluomini siciliani che con la cornucopia carica di doni ha contribuito a tessere questo legame affettivo e culturale capace di superare l’oceano, le distanze geografiche e storiche, gli steccati ideologici, per riportare qui tra noi il più attuale e anticonformista cantore dell’Olimpo.

Pubblicato in Psicologi & Psicologia in Sicilia, anno IX, n° 4, ottobre 2006

giovedì 13 ottobre 2011

L'amore che resta

di Gus Van Sant ,  2011


L'adolescenza è un'età difficile malgrado nell'immaginario collettivo sia la più desiderabile. Gus Van Sant ne ha  già accostato gli aspetti d'Ombra  in altri film:  Elephant 2003, sul tema della violenza e dell'aggressività: Paranoid Park 2007 sulla tematica della colpa. Qui la investiga nella sua relazione con la morte, con la malattia , con la sofferenza.  Ecco cosa mi ha sollecitato la visione del suo ultimo film.

Gus Van Sant guarda le cose da vicino, con l’obiettivo puntato in modo tale da tagliare alcune parti di ciò che riprende, quasi a volere entrare dentro ciò in cui si sta concentrando, indifferente a quello che non è veramente importante. Qui è dentro la testa di due adolescenti che cerca di entrare, due adolescenti particolari, ambedue toccati dalla morte malgrado la loro giovane età e che,  proprio per questo,  piuttosto che fuggirla ne sono attratti, tentando di scoprirne la natura, di percepirne la vastità mentre sono nel pieno della vita. E lo fa con delicatezza, con levità, facendo sorridere malgrado la tragicità del tema, sul quale per lo più si tende a sorvolare o a mistificare, o al contrario a drammatizzare ed esasperare.

Il “fantasma” giapponese, un kamikaze qui  alter ego del giovane  Enoch , segnato dalla morte dei genitori in un incidente d’auto dal quale si è “sfortunatamente” salvato dopo tre mesi di coma,  e ora innamorato di Annabel, ammalata di cancro, è determinante per il dialogo che prende forma  nella fragile psiche del protagonista. Attraversato dall’abbandono e dalla rabbia, già esposto al dolore di una  nuova perdita, non rinuncerà a conoscere l’amore, a condividere la speranza per un altrove che non c’è, riuscendo infine  ad accettare ciò che non si può evitare.

Dall’altra parte c’è lei, appassionata studiosa delle teorie darwiniane e di scienze naturali ,  sorridente davanti a quel passaggio necessario a mantenere  l’equilibrio generale della natura,  che lo inizierà alla sessualità e  alla  breve ma intensa felicità che la vita regala  pur nella consapevolezza dell’inevitabile distacco.

Un film delicato, struggente, trattato attraverso la bizzarria e la spontaneità della giovinezza, denso di misurata malinconia, un po’ gioco un po’ sofferenza .

venerdì 7 ottobre 2011

Progetto Alzheimer


Dal primo Ottobre 2011 è attivo presso l’Unità  Operativa di Neurologia in collaborazione con il Servizio di Psicologia del Presidio  Garibaldi-Centro il
     

                                                  Centro Ascolto Psicologico
                                        
                                                   Tutti i venerdì dalle ore 10 alle 13
                                                               Tel.095 7594221


Il  centro-ascolto è dedicato ai familiari dei pazienti affetti da Alzheimer che vogliano utilizzare l’intervento psicologico per un adeguato sostegno emotivo, accrescendo le proprie risorse personali in funzione di un compito difficile e stressante .
La finalità è quella di costituire un gruppo  tra persone coinvolte nelle stesse problematiche in presenza di un esperto  al fine di orientare verso un percorso psicoterapeutico individuale e/o di gruppo.
La metodologia di intervento comincia con la richiesta telefonica ( chiamata al centro ascolto) per svilupparsi con colloqui di Assessment  per l’eventuale presa in carico degli stessi.
Incontri  di gruppo con periodicità di una volta ogni 15 giorni.
Incontri psicoeducazionali e informativi di gruppo con periodicità mensile.

Responsabile del progetto :  Lilia Di Rosa  
Collaborano: Danira Grifò, Daniela Russo, Daniela Santocono,Simona Zappalà

mercoledì 5 ottobre 2011

La pelle che abito

P.Almodovar, 2011

Più che mai l'inquietante film di Pedro Almodovar attualmente nelle sale ha stimolato le mie riflessioni a proposito del corpo che abitiamo , oggi così "manipolabile e trasformabile"  grazie agli sviluppi della scienza e della medicina cui  sempre più ci consegniamo, nel bene e nel male.
Ecco il mio commento.

La ricerca estetica curata con maniacale attenzione, la bellezza della vittima protagonista, il gusto mai perduto per l’eccesso, sottolineano e rafforzano la scelta estrema di questa storia sconcertante che solo apparentemente tratta il tema dell’identità.
Direi piuttosto che Almodovar utilizzi qui i suoi preziosi strumenti di regista per illuminare gli eccessi della scienza e il suo delirio di onnipotenza: unico strumento per difendersi dalla incapacità di accettare la perdita e la sofferenza che gli è connessa.
Cosa non può tentare un chirurgo estetico che ha perso la propria donna suicida a seguito di un incidente che l’ha completamente carbonizzata? Come non riuscire a utilizzare il proprio potere e il proprio desiderio di vendetta su colui che ha tentato di stuprare la figlia?
Sappiamo che oggi il progresso scientifico e l’ingegneria genetica dà al medico il potere di modificare la struttura stessa della vita, di “copiarla” , di manipolarla . Se ciò è nelle mani di un uomo ferito e disturbato, la tentazione di usarne gli strumenti per il proprio egocentrismo non ha più limiti, ma diventa il fine della ricerca, la strumentalizzazione massima del proprio sapere.
Ecco cosa ci porta Almodovar in questo film noir come è stato detto, lui così rouge di passionalità ed intensità. Qui il clima è freddo come la pelle che abita il/la protagonista, ingabbiato nel maxischermo di una lussuosa dimora, controllato a vista dalla madre di questo dio /carnefice, abituata alla follia cui lei stessa ha dato vita.
Il film non affronta direttamente la follia di ciò che racconta, ma ne satura l’atmosfera, la porta fuori dai reparti che la ospitano, lontano dai camici bianchi che cercano di contenerla , per distribuirla nella vita, nelle feste , negli ospedali, nelle strade di un mondo irreparabilmente malato.
Questa recensione è pure su
http://www.crocevia.info/la-pelle-che-abito

lunedì 12 settembre 2011

Il mio commento al Film "Terraferma"

http://www.crocevia.info/terraferma

Sulla pagina qui indicata potete leggere la mia recensione al recentissimo " Terraferma"  di Emanuele Crialese.

Un film che suggerisco a tutti di vedere per la potenza delle immagini e per la profondità del contenuto.Un film il cui protagonista è il Mare come archetipo della Vita, della sua  necessità di trasformazione, del suo continuo divenire.

mercoledì 7 settembre 2011

21 Settembre 2011 - XVIII Giornata Mondiale dell'Alzheimer


Dedicato a Mia Madre.

L'Alzheimer è la malattia dell'invecchiamento e della degenerazione del rapporto tra individuo e mondo. Presso l'ospedale dove lavoro incontro settimanalmente donne e uomini che ne sono affetti e i loro familiari. Non è semplice per questi ultimi stare accanto a chi lentamente se ne va dalla memoria del  quotidiano, dalla rappresentazione  di sè alla quale ci si era abituati. Incontro figli, o mogli o mariti che stentano a riconoscere chi hanno amato per una vita intera e si disperano nel tentativo di richiamarne la presenza. Ma chi entra nella regressione dell'Alzheimer vive già in un altro mondo, si allontana dalle sue abitudini  e dai suoi interessi spesso in modo sconcertante, creando negli altri più smarrimento di quanto non provino essi stessi.
A queste difficoltà, e ai rimpianti che suscitano, e alle conseguenze che ne derivano,  voglio dedicare il film che ho scelto per questa giornata, cercando attraverso le emozioni che esso suscita di stimolare una visione più realistica di chi è immerso in questa esperienza della vita, accettando di viverla fino in fondo, con nuovo indispensabile amore.
Sono convinta che la visione di "Una sconfinata giovinezza" di Pupi Avati , riuscirà a parlarne più di ogni altra relazione scientifica, stimolando immaginazione e riflessione in tutti coloro che conoscono o hanno conosciuto questa malattia.

mercoledì 24 agosto 2011

La “visionarietà “ nell’arte

Intervento presentato all'incontro "Arte e Follia"
5 Marzo 2011 Libreria Mondadori, Catania



   "L’arte non riproduce il visibile, piuttosto rende visibili forze che non lo sono". –
                                                                                                                                Paul Klee 

 Il linguaggio visionario è un linguaggio perduto, come cifre indecifrabili. Ma si nasconde sotto tutto ciò che noi sogniamo ogni notte. È invisibile appare ogni volta che la visione di immagini  scorre in modo significativo. Esso emerge dal trance, dalla contemplazione, dal mito e dalla follia. Questa antica immagine-lingua, altrimenti dimenticata, è ora parlata una volta di più ... ( dal Manifesto of Visionary Art,)                                                                                                             

La visionarietà è un sostantivo comune all’arte e alla psicopatologia.
Giunta alla fine di questa mia riflessione voglio concludere che tale caratteristica  in realtà appartiene anche alla vita normale così come all’arte in genere, in quella speciale accezione per la quale non c’è niente di più normale della follia.
Tradizionalmente l’arte visionaria è intimamente legata al Surrealismo: movimento nato in Francia nell’immediato dopoguerra  ad opera di Andrèe Breton. Nato come corrente letteraria, riguarda principalmente la poesia. In seguito, si estende alle arti visive, influenzando la pittura, la scultura, il cinema. Si presenta come un movimento rivoluzionario. Contesta i valori della società borghese e la cultura che li sostiene. Per questo, propone una nuova concezione della realtà e una nuova idea di bellezza.”
Avendo io una prospettiva psicologica e non quella di una studiosa d’arte,   voglio cominciare dal significato del temine, piuttosto che dall’origine storica del movimento che fa della “visionarietà” il suo manifesto.
  
Comincio dal significato del termine:
 Che ha visioni soprannaturali: un mistico
V . che soffre di allucinazioni visive
 estens. Che concepisce progetti irrealistici o immagina come vere cose che esistono solo nella sua fantasia
Chi ha visioni mistiche o allucinazioni visive.
Sognatore                                             
 Possiamo sintetizzare con il Vedere ciò che non c’è o vederlo in modo de-formato

  Nel purgatorio Dante scrive:
                                                E che la mente nostra,
                                               pellegrina più della carne,
                                              e men da pensiero presa,
                                              alle sue vision quasi è vicina

In questi versi Dante, il più visionario dei poeti di tutti i tempi, esprime al meglio l’essenza del termine, mettendo insieme l’errare della mente, molto più di quanto possa fare il corpo, quando viene meno il pensiero ( cioè la mente razionale), per avvicinarsi alle sue visioni.
Da questa premessa che circoscrive l’oggetto di questa riflessione, mi sono soffermata a pensare se intendevo parlare della  visionarietà dell’arte o nell’arte. Due preposizioni che  cambiano i termini dell’indagine, ma che è necessario tenere presente.
 Secondo una prospettiva psicologica,  l’Arte – a mio parere - è sempre visionaria (in questo caso quindi possiamo parlare di visionarietà dell’arte) in quanto non ha mai a che fare con oggetti reali, ma con oggetti mentali. Per quanto possa riferirsi alla realtà, usare mezzi materiali o riprendere fatti reali, essa non è mai copia (come sosteneva Platone)  ma, semmai, nel peggiore dei casi,  imitazione. In ogni caso è una imitazione soggettiva, vista dall’autore in modo più o meno originale o luminoso (numinoso) . In antitesi a Platone, infatti, l’Arte per Aristotele  ricrea le cose secondo una nuova dimensione e in questo senso la pone come superiore alla Storia.  L'arte tratta i fatti in modo diverso da come fa quest’ultima: mentre la storia è vincolata al particolare, l'arte assurge all'universale,  può prescindere dalla realtà, può introdurre eventi irrazionali o impossibili, ricorrere a menzogne o a finzioni. La sua superiorità rispetto alla storia sta nel fatto di poter rendere  l'impossibile o l'irrazionale  verosimile. A tal proposito  sostiene Aristotele  che "L'impossibile verisimile è da preferire al possibile non credibile".
E qui comincio ad avvicinarmi a quello che voglio dire a proposito della  visionarietà  nell’Arte :  esattamente l’oggetto di studio di questo mio breve studio.
Per tentare di esprimere questa mia indagine, farò riferimento in particolare alla pittura e alla scultura: le due arti visive per eccellenza, espressione diretta di ciò che abita la mente dell’artista, ma anche alla letteratura, arte immaginifica . Farò degli esempi, e scusate se mi servirò non solo delle manifestazioni dei grandi Artisti , ma anche di artisti minori o anche sconosciuti, ma nelle cui opere questo carattere può essere assunto come simbolo di creatività artistica, se non proprio di Arte con la a maiuscola, in modo da consentirmi di dimostrare in concreto ciò che voglio dire.
Ancora di più scusate se parto da me.
A circa 10 /12  anni, la sottoscritta che allora si dilettava con la pittura partecipando anche a mostre e vincendo anche qualche premio, dipinse a tempera un piccolo foglio intitolandolo per l’appunto La follia.
E’ uno dei pochi lavori, se non forse l’unico tra quelli che mi sono rimasti di quel passato pittorico, cui sono particolarmente legata e che , ancora oggi, è possibile vedere nel mio studio in ospedale.
Nel corso degli anni, questa piccola tempera si è mostrata al mio sguardo  come la rappresentazione più adeguata a descrivere la mia idea di follia, o forse la mia follia, anticipando di gran lunga quella che la mia mente avrebbe formulato nel tempo  attraverso gli studi  che ho fatto e l’esperienza che il mio lavoro mi ha offerto di fare.
A 10 anni quindi, il mio inconscio produsse del tutto inconsapevolmente  una visione di cui all’epoca non avevo nessuna cognizione.

Qualche anno fa mio figlio, scultore in quel periodo, oggi disegnatore e fumettista,  produsse in un calco di gesso un giovane uomo morto. La sua descrizione verbale era quella che si trattava di un giovane coinvolto in un incidente con il motorino. Il calco era prono, con macchie di sangue a terra. Quel calco, per chiunque passasse  dove era esposto, era fonte di sussulto e trasalimento, tanto era realistico. Chi conosceva l’autore non poteva non vederne le sue stesse fattezze. Solo qualche mese dopo lui stesso ebbe un incidente (in motorino) che gli sarebbe costato la frattura di tibia e  perone. Fortunatamente la visione anticipatoria che nel gesso aveva rappresentato non fu letterale, ma l’elaborazione della morte e dell’abbandono  del corpo, così come altre vicissitudini interne trovarono rappresentazione  in questo e in altri lavori successivi, mostrando che la capacità creativa  andava oltre i limiti del presente , seguendo una precisa visione interna contemporaneamente immaginaria e reale, e cogliendone anche possibili sviluppi futuri.     

Scrive Frida Kalho: "Non ho mai dipinto sogni. Ho dipinto la mia realtà

L’artista , una delle mie preferite, ebbe  come tutti sanno una vita segnata dalla malattia: le sue opere sono un’autobiografia pittorica, una sorta di diario visivo, di dimensione onirica nel quale traslocare  non solo la sofferenza che la tormentava, ma l’immagine  interna di quella sofferenza: una descrizione certamente visionaria di quanto accadeva dentro il suo corpo. La maggior parte dei suoi dipinti incorporano infatti rappresentazioni simboliche delle  proprie ferite fisiche  e psicologiche. She insisted, "I never painted dreams. I painted my own reality."
                                             Guardiamo alcune di  queste opere:……..

 E’ fuori di ogni dubbio che tali rappresentazioni , pur riferendosi alla realtà vissuta dall’autrice, siano assolutamente  visionarie, oniriche, surreali. Frida dipinge ciò che accadeva realmente nella sua esperienza di vita, addirittura dentro il suo corpo,  pur trasmutandola in  immagini che potremmo definire  perturbanti,  proprio perché capaci di rendere visibili (come sostiene Paul Klee)  esperienze interiori altrimenti invisibili. "Tenuto in casa, nascosto” è la traduzione  del termine tedesco  un-heimlich utilizzato da Freud nel suo famoso saggio  Il perturbante.  Qualcosa che pur
essendo familiare si presenta in modo inconsueto,  che sorprende, turba, o addirittura  spaventa.
C’è un altro artista , tra i miei preferiti,  lo scrittore Haruki Murakami,  che tratta la realtà come se fosse sogno,  e non per sottrarre ad essa concretezza ( come del resto fa Frida) ma al contrario per dare  ad essa maggiore  forza espressiva.  I romanzi di Haruki Murakami non sono narrazioni, sono visioni.
Lui stesso scrive di sé:
 Scrivo storie strane, bizzarre. Non so perché mi piaccia tutto ciò che è strano. In realtà, sono un uomo molto razionale. Non credo alla New Age, né alla reincarnazione, ai sogni, ai tarocchi, all’oroscopo. (…..) Ma quando scrivo, scrivo cose bizzarre. Non so perché. Più sono serio, più divento balzano e contorto

Nella fine del mondo e il paese delle meraviglie,  descrive così questo luogo inconoscibile che sta dentro ognuno di noi:
“ In fondo alla coscienza di ognuno di noi c’è un nucleo che non possiamo percepire. Nel mio caso si tratta di una città. Una città dove scorre un fiume, circondata da una alto muro di mattoni. ………Io vivo lì. Anche se quel posto non l’ho mai visto con i miei occhi, quindi non so dirti altro.”
Quel posto è il sotterraneo della nostra coscienza, la nostra coscienza onirica,  dove i fatti dell’anima diventano per Murakami vicende tra il thriller e il fantascientifico, metafore inserite nel mondo quotidiano, dove gli oggetti più consueti assolvono a funzioni psichiche e  ad elaborazioni personali e stravaganti del proprio viaggio individuativo – scrivevo in un lavoro di qualche anno fa su questo autore.  E’ così può accadere  che:

“Mi accade spesso di sognare l’Albergo del Delfino. Dal sogno si direbbe che ne faccio parte in modo stabile. La forma dell’albergo appare distorta. E’ molto lungo e stretto. Tanto lungo e stretto da sembrare, più che un albergo, un lungo ponte coperto da un tetto. Un ponte che si estende, in tutta la sua lunghezza, dall’antichità alla fine del mondo. Io ne faccio parte. Lì dentro c’è anche qualcuno che piange. E io so che piange per me. (Dance, dance,dance)

Il protagonista scivola così, insieme ai suoi lettori, in un’atmosfera surreale dove i piani di realtà e sogno si confondono e si fondono continuamente, passando con disinvoltura tra l’uno e l’altro, come il movimento verso l’alto e verso il basso di un ascensore (tema ricorrente anche in altri romanzi).

L’albergo mi comprende dentro di sé. Riesco a percepire le sue pulsazioni e il suo calore.
 Nel sogno sono una parte dell’albergo”
“ Era come se mi trovassi sul fondo del mare, oppresso dal peso schiacciante del buio. Cercai di abituare la vista all’oscurità, ma era inutile. Non era un’oscurità superficiale a cui ci si adatta dopo un po’ di tempo. Era assolutamente impenetrabile, densa come strati su strati di vernice nera: istintivamente, mi frugai nelle tasche. Nella destra avevo portafogli e portachiavi, nella sinistra la scheda per aprire la porta della mia camera, un fazzoletto e qualche spicciolo. Tutte cose perfettamente inutili al buio. Per la prima volta rimpiansi di avere smesso di fumare: adesso avrei con me l’accendino o i cerini. Ma era inutile pensarci. Provai ad allungare la mano cercando il muro. Nel buio tastai una superficie verticale , dura. Era il muro, liscio e freddo. Troppo freddo per un muro del Dolphin Hotel, dove i climatizzatori mantengono sempre una temperatura ideale. Devo riflettere con calma, pensai. RIFLETTERE CON CALMA.”

Ecco come lo scrittore racconta il senso di spaesamento, di disorientamento: esperienza psichica nella quale si perdono i consueti punti di riferimento.
Ma cosa si intende per visionarietà ?
In senso psicopatologico la visionarietà  è in qualche modo assimilabile ad una dimensione allucinatoria: vedere ciò che non c’è, oppure vedere qualcosa in modo deformato, non perfettamente aderente alla realtà. La capacità di vedere oltre il mero dato concreto infatti attiene alla mente creativa che tutti noi possediamo.  La mente creativa è quella parte, o meglio quella funzione della nostra mente, che si attiva nei sogni, anche quelli ad occhi aperti, o quando dobbiamo risolvere un problema i cui dati possono non essere necessariamente visibili, o quando intuiamo le conseguenze di un certo atto o decisione, insomma quando creiamo qualcosa che non è al momento percettibile o sensibile. In psicopatologia l’allucinazione rappresenta la creazione di un mondo altro da quello reale, ma reale per l’individuo che lo crea, in quanto significativo di una scena interna, o di una sensazione fisica che si tramuta in immagine, in visione appunto.
Ma quando si può parlare di Arte, o di processo creativo vero e proprio, distinguendo l’arte dalla non-arte?
Se la mente creativa e la capacità immaginale è presente in tutti noi cosa distingue il folle dall’artista? A meno di volere definire un po’ folli tutti gli artisti, sappiamo che i due termini sostanzialmente differiscono. L’uno è considerato “normale”, l’altro viene considerato malato. Secondo  Freud il comportamento ordinario non è altro che il risultato di un continuo processo dialettico tra la parte più selvaggia e disorganizzata del cervello, l'Es, e quella più pesata e razionale, il Super-io.
Secondo questa prospettiva, per quanto bizzarro l’artista possa essere , o fuori dalle convenzioni , tuttavia egli è un individuo che ha trovato un certo equilibrio tra queste parti,  che ha trovato una integrazione anche nel sociale, è un Io  che  gli consente  ( a suo modo) di  partecipare al mondo degli altri .( Fra l’altro dobbiamo rammentare che Freud, almeno finchè non conobbe  Dalì, non teneva in grande considerazione l’arte contemporanea, e in particolare il surrealismo). Anche se tutti conosciamo esempi di artisti il cui adattamento alla vita ordinaria è stato difficile , tuttavia la partecipazione alla dimensione collettiva è  stata in qualche modo  possibile. Anzi.
L’artista porta la sua visione  del mondo al mondo, la rende visibile , comunicabile . Se pure nell’atto artistico la struttura dell’Io scompare per dare accesso alle forze oscure dell’inconscio - creare con la parte destra del cervello - il viaggio di accesso agli  archetipi che dominano l’uomo del sottosuolo (citando Dostoevskij)  è un viaggio che generalmente ha ritorno. L’Odissea di
Omero cos’è se non il poema visionario che narra questo viaggio. Un viaggio eroico, quello di Ulisse, alle prese con  avventure e rischi di ogni genere. Lo stesso viaggio che tutti noi siamo soliti fare quando scendiamo nelle nostre oscurità, nelle nostre malattie interiori, nelle nostre ossessioni. E dalle quali non è sempre facile il tornare.  Ecco. L’artista, affronta  questo viaggio interno con una marcia in più.  Lo strumento artistico gli consente di elaborare le pressioni interne, i risucchi dell’anima, le angosce dando ad esse sostanza e voce, rappresentandole mentre o dopo averne fatto esperienza.   Le trasforma in Visioni  condivisibili con gli altri. 
Nell’artista si  attiva una forma di possessione che piuttosto che condurlo ad  espressioni psicopatologiche, lo aiutano ad esprimere la sofferenza nel prodotto artistico, capace di dare contemporaneamente linfa vitale al processo creativo  e sollievo ai tormenti della mente: l’artista   è  posseduto dal demone dell’ispirazione ( che sia  l’archetipo nettuniano del viaggio onirico,  o da quello plutoniano  come il rapimento da parte di Ade  nel mondo infero, o quello della fusione mistica con un altrove paradiasiaco) e questa possessione è anche la sua salvezza.  
A questo proposito Jung, nell’esaminare il processo creativo giunge a istituire una polarità tra simbolico e non simbolico. Di fronte all’intenzione creativa l’artista si può porre o cercando di identificarsi con essa, mettendosene a capo e volgendola e plasmandola per come intenzionalmente crede meglio per raggiungere il risultato estetico  desiderato, oppure lasciarsi da essa completamente guidare, accogliendo in lui l’opera di un “complesso autonomo” sostanzialmente estraneo alla propria intenzionalità cosciente. In questo caso l’opera sarà portatrice di contenuti simbolici estranei alla sua stessa coscienza. E’ questa la condizione psichica della visionarietà cui il linguaggio artistico dà voce. Così ne parla Jung:
è un linguaggio gravido di significati, le cui espressioni avrebbero valore di veri simboli, poiché essi esprimono nel modo migliore cose ancora sconosciute, e sono come ponti gettati verso una riva invisibile.
Se andiamo un po’ più indietro nel tempo e  pensiamo alle grandi opere dei Maestri del 400  o del 500 ,  Hieronymus Bosch per citarne uno. Non possiamo ignorare la grande visionarietà delle sue opere: sono visioni spiritualistiche, chiaramente influenzate dallo spirito del tempo e dalla concezione medievale della storia dell’uomo intrisa di religiosità, di desiderio di elevarsi a Dio. Nelle sue opere , enigmatiche ed inquietanti, si  intrecciano  motivi astrologici, alchemici e folkroristici ricchi di simboli e di allegorie rappresentative della condizione dell’uomo, della sua follia , della sua dannazione.
Guardiamone  alcune …….
                                                                    
                                                                     Bosch   ( e il soprannaturale)

Pensiamo a un altro artista dell’epoca, di poco successivo al pittore fiammingo, Bruegel.
Di lui si dice che abbia viaggiato moltissimo, anche in Italia, attraverso i vizi e le virtù degli uomini del suo tempo, delle correnti mistico - eretico , risputandole sulle tele e sulle tavole, come qualcuno efficacemente  ha detto di lui.

                                                                    Bruegel  ( l’uomo e i suoi vizi)

 E che dire della visionarietà naturalista di Arcimboldo? L’artista milanese attualmente in mostra nella sua città, coniuga nelle sue tele l’idea della brulicante commistione tra uomo natura animale, dando luogo a un senso di immediato disgusto con i suoi volti  bizzarri  , assemblaggi  tra frutti ortaggi animali, insiemi tra il  macrocosmo e il  microcosmo, come nelle sue celebri "nature morte" reversibili.
                                                                 Arcimboldo ( uomo e natura)

Può affermarsi che questi lavori siano meno visionari di quelli cui tradizionalmente si attribuisce questo termine?
E’ questa la forma di arte visionaria cui Jung fa riferimento : una  condizione  cui l’artista si piega incondizionatamente abbandonando le parti razionali, e le intenzionalità coscienti, per sottomettersi  alle  pressioni  di contenuti la cui essenza gli  è estranea e sembra provenire da un remotissimo sfondo di epoche preumane  o da sovraumani mondi di luce o di tenebra.
Sappiamo che per  Jung l’inconscio non è solo il luogo del rimosso personale, ma anche il luogo dove si sedimenta l’esperienza collettiva.  Il processo artistico si fa allora messaggero di una visione   che  origina tra i demoni del sottosuolo , dove abitano gli archetipi collettivi della coscienza arcaica presente in tutti noi, dove hanno sede i mostri , le ombre.  E’a questa dimensione che il
processo creativo attinge per trasformare i suoi contenuti in espressione artistica, operazione trasformativa e salvifica,  che viceversa può portare ad altri stati malati, dai quali non sempre c’è ritorno. Solo l’arte infatti dà quella possibilità di transitare attraverso essi, di varcarne la soglia, ma di poterne fare ritorno.
E’ questo il punto nevralgico – direi – per distinguere la follia artistica dalla follia del DSM IV , la visionarietà in senso artistico dalla visionarietà in senso psicopatologico,  pur essendo fondamentalmente molto vicine.
La follia creativa non è sintomo di malattia,  pur potendo affondare nella malattia, cioè in quelli stati di coscienza alterati dalla malattia, o dalle droghe, o dalle esperienze profonde: attinge  al  Sé e alla propria  dimensione nascosta , ma contemporaneamente la organizza, la orienta, la esibisce.
E così facendo li trascende. L’opera aggiusta, riadatta,  traduce in una forma ciò che è informe, la rende condivisibile, aderendo a un’altra sua  funzione essenziale: quella sociale, educativa, trasformativa anche per chi la fruisce.
Perché è nella capacità dell’opera visionaria di attualizzare il contatto con l’archetipo  anche in chi osserva, o legge, o interpreta,   determinando una trasformazione della coscienza. Non si tratta più di sola  contemplazione estetica, ma di effetto estraniante, perturbante , che  diventa provocazione, disgusto a volte, in ogni caso di  scuotimento . L’arte è insomma uno strumento di conoscenza di sé e dell’altro, per sé e per l’altro, che va ben oltre la sfera  del sapere razionale , ma che si nutre di forze e saperi che fino a quel momento ci sono ignoti.
E’ evidente che questi viaggi e queste visioni risentono dello spirito del tempo, dei temi che dominano la cultura cui si appartiene. Diventano sogni collettivi nei quali si legge la storia dell’epoca cui prende origine, aprendo così una porta sugli universali.
La dimensione artistica , con la sua capacità visionaria di rappresentare il mondo è il luogo dove motivi personali e archetipi collettivi si fondono per dare corpo e visibilità al mondo da cui prende origine. Non posso non citare qui , per completare questa vetrina di artisti visionari
                                                          Hans Rudolf Giger  ( vedi la macchina procreatrice ad es.)
                                                          L’uomo della tkenè
le cui visioni aliene e oniriche sono una rappresentazione del proprio immaginario di morte  , di orrore, di situazioni infernali, inserito  nel mondo della tecnica tanto da diventare paradossalmente iperrealistico, nel senso che riesce a condurre i temi della contemporaneità fino all’estremo limite.
Come sostiene Heghel” l’arte è  “l’apparire sensibile dell’idea” essendo l’esperienza artistica
essenzialmente mediazione e conciliazione tra spirito e materia, universale e particolare, infinito e finito, pensiero e sensibilità.
E’ un occhio  (il terzo forse) che si apre sull’inaccessibile,  che ci dà accesso alla dimensione dello spirito, una possibilità di vedere ciò che non si vede con l’immediatezza dei sensi. Per richiamarmi al mio interrogativo iniziale posso dire dunque che è dell’Arte la capacità di vedere oltre.
Torniamo all’oggi e allo scrittore Murakami e al suo viaggio in questa città sconosciuta alla fine del mondo, ai limiti della nostra soggettività :

Voglio solo conoscere meglio questo posto.- scrive - Che forma ha, che storia ha, chi ci vive e in che modo, tutto. Vorrei sapere cos’è che mi dà gli ordini, che mi fa muovere come una marionetta. E anche cosa c’è al di là.

Con  questo romanzo (  forse il più visionario di questo autore) , il più difficile da decifrare, ma il più ricco di immagini e di contenuti simbolici Murakami ci fa vivere  il  viaggio pericoloso  ma necessario   per ricongiungersi con la propria Ombra, inoltrandosi al di là di quella muraglia altissima di paure e convinzioni  che ci mantengono nell’ordinario e del noto, scissi dalla nostra parte più profonda . Un viaggio per trovare il paese delle meraviglie  che l’integrazione di tutti gli aspetti psichici può dare (alla fine del mondo): la totalità psichica, il  Sé.
E’una strada  difficile da percorrere, che l’Arte  aiuta a fare.

Adesso lei si sta preparando  a spostarsi in un altro mondo.- continua per bocca di un enigmatico Maestro-    Per adattarsi al quale sta effettuando dei cambiamenti progressivi nel mondo che vede adesso. Questa è la percezione. La percezione è in grado di cambiare la realtà. Ma a livello fenomenologico, il mondo costituisce soltanto una fra le illimitate possibilità…
E più in là……
Come si esce da questo sotterraneo?
Non è una cosa semplice  -risponde ancora - bisogna passare di fianco al covo degli Invisibili.
Se la sente?

                                                                                             Lilia Di Rosa