venerdì 20 aprile 2012

Metafore del corpo : ciclo di incontri su cinema e letteratura

Come ogni anno l'Associazione ContAnimare, che ho il piacere di rappresentare, dedica una parte significatica della sua attività al cinema considerato uno dei linguaggi artistici più appropriati e duttili per proporre, discutere e re-visionare problematiche  psicologiche complesse del nostro vivere. Quest'anno abbiamo dedicato al corpo e alle sue molteplici declinazioni un ciclo di cinque film con l'intenzione di tracciare, attraverso gli stessi, un percorso tematico che dall'inizio ( Il cielo sopra Berlino) alla fine ( Non lasciarmi) riuscisse in qualche misura ad attraversare l'universo che connette la nostra esperienza di vita alla corporeità, nella difficile ma sempre presente consapevolezza che le due dimensioni dell'essere qui e ora, spazio e tempo, anima e corpo siano inseparabili.

Alla fine del ciclo ho scritto questo commento, scaturito dalle riflessioni, ma ancor di più dalle sensazioni che l'esperienza del gruppo che vi ha partecipato ha stimolato.


Tutto è cominciato con uno scambio, di abiti, di oggetti, surrogati delle nostre identità sociali, delle maschere dietro cui ci nascondiamo; abbiamo concluso con lo scambio delle nostre idee, emozioni, e di strette di mano, di sguardi  e - perché no?- anche di lacrime. Ci siamo spogliati, almeno per un po’, dalle ingessature cui ci costringono le convenzioni sociali e abbiamo provato il gusto di potere andare al di là degli abiti e sentire che dietro di essi c’è una immensa ricchezza di “diversità”,  di “differenza” , che prende forma dalla storia che abbiamo vissuto, dalle cose che ci sono capitate, dai libri che abbiamo letto o studiato. Ecco: da queste differenti angolazioni, abbiamo guardato gli stessi film e, sempre meno convinti che il nostro modo di vederlo fosse l’unico o il più giusto, la nostra interpretazione la più idonea, ci siamo abituati a scambiare le nostre visioni, senza alcuna pretesa di verità. Perché se è pur vero che c’è una verità nelle cose del mondo, è certo anche che solo le differenti prospettive ne possono dare  una qualche misura, nel tentativo di accostarsi ad essa , seppur marginalmente,  come essenza del nostro “stare al mondo”.
Dal Corpo travestito dunque , con il quale abbiamo aperto la rassegna di quest’anno, ci siamo spostati dentro tutto ciò  che anima il nostro corpo. Perchè Anima è la sua vera sostanza, la sua natura, inseparata e inseparabile: il suo doppio.  Non corpo-manichino, né corpo-oggetto della scienza o corpo-da esibire, ma corpo senziente , che desidera, che teme  e che,  nel riflesso dello sguardo altrui,  scorge i suoi stessi tormenti e limiti. A questo corpo è stata dedicata la riflessione di questo ciclo che a sua volta ha avuto un suo “corpo” - il gruppo -  che,  a partire dal capolavoro di Wenders,   è "caduto"  attraverso parole e  immagini nella ricerca  di una possibile verità  della realtà  del corpo e della sua esperienza ,  e della sua inesplicabile ambiguità, sempre inconciliabilmente divisa tra la  propria appartenenza alla natura e il suo desiderio di trascenderla.  Luogo - non luogo, come è stato detto, entro cui la nostra presenza si espone all’altro e dove  ogni senso diviene strada  per ritrovare il proprio senso, significato del suo esistere: il corpo infatti è parola, linguaggio,  ponte di comunicazione continuamente sospeso tra l’Io e l’Altro, e la cui inafferrabilità diventa dannazione, malattia come per George, il protagonista di Lezione di piano, solitudine  estrema  quando siamo di fronte alla sua perdita come abbiamo visto in A single man.
Pertanto il corpo si connota come  l’oscura sede del dubbio, dove una ignota volontà ci dirige verso la più incerta della mete, la più ambigua delle sue certezze, e per questo da sempre sfuggita, ignorata, o, al contrario, manipolata. Perché, come sappiamo, il nostro più inattaccabile desiderio è quello che il nostro corpo non ci tradisca mai né con la vecchiaia né con la morte, e che quell’innata aspirazione all’eternità che un dio ci ha promesso, senza alcuna certezza però,  potrebbe forse donarcela la scienza. Il progresso infatti , come  nuovo dio,  ci fa intravedere la possibilità di lasciarci a lungo nella nostra carne - anche se fatta a pezzi -  anche se svuotata di significato e di senso, e quindi di anima. Questo è lo scenario che l’illusione collettiva di immortalità potrebbe perseguire colludendo con gli strumenti della scienza, con le possibilità aberranti delle sue scoperte e che l’ultimo film ci ha proposto, forse per ricordarci che necessariamente ad ogni inizio segue una fine e che ad ogni fine segue sempre un nuovo inizio.
Del resto l’anima scissa, relegata, o ignorata rimane sempre in ogni aspetto del vivere, anche nelle sue più aberranti manifestazioni.
Infine, parafrasando Kundera e la sua insostenibile leggerezza, il gruppo-corpo che ha dato forma e vita a questo ciclo, è stato attore e testimone della sua permanenza pur nel movimento  e nella variabilità dei suoi componenti, aderendo ad un progetto vitale che gradualmente si è disvelato e compiuto in una identità precisa che, se pure per una volta e una volta soltanto  è stata una unità vivente , lasciando le sue tracce in ogni singolo partecipante.  Questo è certamente il maggiore pregio che l’intero ciclo ha avuto , cogliendo l’opportunità di essere attraverso il linguaggio cinematografico il reale protagonista di una esperienza  culturale e psichica profonda.