giovedì 13 dicembre 2012

Ancora sui disturbi alimentari


La metafora alimentare investe e descrive ogni aspetto della vita dell’uomo e della cultura cui appartiene, nonché dell’importanza attribuita in tutte le culture alla corporeità e alle sue forme. Pensiamo a quante connotazioni ha il termine carnale (da l’essere in carne, al passionale, sensoriale, ecc), o sentimenti quali il disgusto, la nausea, ecc. Per non parlare della metafora del peso che allude al peso del corpo quanto a quello dell’importanza, o a concetti quali amaro, dolce, acido, disgustoso, che tratteggiano i caratteri delle persone attraverso il sapore cui rimandano. Vorrei soffermarmi sul termine disgusto: forse la sensazione tra le più sgradevoli che si possa provare di fronte a cibi, persone, comportamenti, lungo un continuum di sensazioni che provocano nausea, disapprovazione estrema, fino all’orrore e al vomito: sintomo corporeo dell’ estremo rifiuto. L’incorporazione infatti non risiede certamente solo nella bocca, ma in quell’ assunzione di tutto ciò che noi portiamo dentro attraverso gli  organi di senso: vista, udito, olfatto, sesso.  Pensiamo alla nausea gravidica come esperienza tutta femminile di  disgusto interiore dovuto alla necessità di incorporare dentro di sè una nuova vita , segnale di ambivalenza estrema tra ciò che si avverte  come estraneo pur essendo proprio. Tutto quello che appartiene al mondo esterno è accuratamente selezionato non solo dagli organi di senso ma dalla nostra stessa  struttura di coscienza che ci indica cosa portare dentro, assimilare, elaborare , fare nostro, e quello da respingere , rigurgitare, vomitare, rigettare, pena  la rottura del nostro equilibrio. Perché non solo il cibo, ma certamente insieme al cibo, tutto quello che noi incorporiamo inevitabilmente ci trasforma, si sedimenta, si accumula nel nostro corpo come nella nostra mente e nella nostra coscienza. Il cibo quindi non è mai soltanto materia più o meno ricca di sostanze nutritive, ma è atmosfera affettiva, espressione di istinti profondi, armonia con la natura e con tutto ciò che ci circonda, modificazione del nostro stato di coscienza.

Se tale selezione era prima determinata anche da un sistema  di regole dettate culturalmente ( abitudini familiari, rispetto delle festività,  precetti religiosi, ecc.) contenendo l’individuo entro schemi normativi condivisi, la generale anomia della società contemporanea ha sviluppato  regole/non regole  derivanti dalla necessità di compensare l’eccesso di edonismo, opulenza, controllo estetico entro il quale noi viviamo,  lasciando alla scelta individuale la selezione di  cosa portare dentro e come.

Ne risulta una molteplicità di regolamenti ideologizzati  che sviluppano  atteggiamenti di stigmatizzazione di tutto ciò che può essere dannoso alla salute ( a partire dai grassi , un tempo simbolo di ricchezza e di abbondanza non solo alimentare) . Inoltre , l’odierna “medicalizzazione” della vita è entrata prepotentemente anche nella definizione dei regimi alimentari  più adatti per evitare malattie di vario genere, alimentando l’ossessione del mangiare sano come punto di partenza per un vivere duraturo e felice. Viene così a diffondersi  una drastica eliminazione di alimenti ritenuti dannosi,  ancora più dannosi in quanto associati a concetti e realtà che non si vorrebbero mai  assorbire: l’idea della malattia, della morte, dell’infezione, del contagio. In una modernità che  anela “ a un corpo trionfante, sano giovane e abbronzato, l’individuo esercita su di esso un controllo ossessivo”  , come sosteneva Le Breton già nel 1990. Controllo che si è concentrato sul cibo come simbolo di tutto quello che del mondo viene portato dentro attraverso i suoi canali  e i suoi orefizi (la bocca in particolare) nel tentativo di contenere l’ansia che lo affligge.

Si sviluppa così e si diffonde un’altra patologia che, per quanto ancora poco conosciuta, occupa un posto ragguardevole tra i disturbi alimentari, l’ortoressia, (dal greco orthos -corretto e orexis –appetito ) : una forma di attenzione abnorme alle regole alimentari dovuta alla paura di ingrassare o di ammalarsi attraverso cibi contaminati o impuri. Una vera e propria “mania nutrizionale”, che nasconde l’ ossessione di alimentarsi in modo sano per  mantenere la propria salute. Il cibo , o meglio il pensiero del cibo ( cosa mangiare, dove acquistarlo, attenzionare le reti di distribuzione  dei prodotti, ecc) finisce per  invadere la vita di chi ne è vittima, allontanandolo sempre più non soltanto dal piacere e dal gusto del cibo , ma anche da tutte quelle situazioni conviviali che non può controllare direttamente, contribuendo ad un isolamento sociale entro il quale l’individuo crede di proteggersi, rifiutando di fatto la relazione con il mondo che lo circonda e interrompendo drasticamente la comunicazione simbolica che attraverso il cibo ogni comunità ha da sempre elaborato. A livello collettivo, la numerosità e la grande variabilità di tali comportamenti prescrittivi e di drastica riduzione di alcuni alimenti, sembrano simbolizzare il tentativo di riequilibrare, per non dire “espiare” , la colpa che la  società  occidentale, opulenta e bulimica , vive nei confronti  di quella parte del mondo che ancora vive nella miseria e nella fame.

Bibliografia:
D.Le Breton: Antropologia del corpo e modernità  Giuffrè editore
G.Nicolosi:   Lost food.  Comunicazione e cibo nella società ortoressica   Prima edizion,Catania
D.Zappalà    Cibo, corpo e società   Tesi di Laurea Facoltà Scienze Politiche di Catania AA 2008/2009