Ecco la descrizione che ne dà wikipedia:
“ Il disturbo
borderline di personalità è caratterizzato da vissuto emozionale eccessivo e
variabile, e da instabilità riguardante l’identità dell’individuo. Uno dei
sintomi più tipici di questo disturbo è la paura
dell’abbandono. I soggetti borderline tendono a soffrire di crolli della
fiducia in sé stessi e dell’umore, ed allora a cadere in comportamenti
autodistruttivi e distruttivi delle loro relazioni interpersonali.
Alcuni soggetti possono soffrire di momenti depressivi
acuti anche estremamente brevi, ad esempio pochissime ore, ed alternare
comportamenti normali. Si osserva talvolta in questi pazienti la tendenza
all'oscillazione del giudizio tra
polarità opposte, un pensiero cioè in "bianco o nero"….La
caratteristica dei pazienti con disturbo borderline è, inoltre, una generale
instabilità esistenziale.”
Secondo il DSM-IV, cinque e più delle caratteristiche sottoriportate bastano per poterne fare diagnosi:
- sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono;
- un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione;
- alterazione dell’identità: immagine di sé e percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili;
- impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto (quali spendere oltre misura, sessualità promiscua, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate etc.);
- ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari o comportamento automutilante;
- instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore (es. episodica intensa disforia o irritabilità e ansia, che di solito durano poche ore e, soltanto più raramente più di pochi giorni);
- sentimenti cronici di vuoto;
- rabbia immotivata ed intensa o difficoltà a controllare la rabbia (es. frequenti accessi di ira o rabbia costante, ricorrenti scontri fisici etc.);
- ideazione paranoide o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress
Rifacendomi alla breve sintesi sopra riportata , vorrei
presentarvi la storia di una mia giovane paziente che in qualche modo ne
riassume le caratteristiche e che, malgrado non si possa dire di avere
raggiunto una conclusione, contiene
tuttavia molti elementi di evoluzione e di elaborazione positiva.
Aggiungo che la paziente in questione non si è mai
sottoposta a trattamenti farmacologici e che la psicoterapia è stata, e
continua ad essere, l’unica forma di “cura” per sostenere la propria difficoltà
esistenziale.
La storia di
R.
R. studia lingue, il suo sogno è andare in America, a
New York precisamente, la sua passione la vita libera, ma con un certa
sicurezza economica. All’epoca ha un ragazzo cui vuole molto bene, ma che non
la soddisfa, né caratterialmente né sessualmente, ma che costituisce per lei un
fondamentale punto di riferimento.
Mi espone subito il motivo della sua richiesta di
terapia: la sua testa buchi, buchi, le chiazze prive di capelli che lei stessa
si procura. Tricotillomania è la
diagnosi che mi porta. Mania di cui è afflitta già da molti anni: più o meno
dopo la separazione dei suoi. Risale a quel periodo l’inizio di una vita
ribelle e turbolenta, vicina alle droghe, alle esperienze sessuali facili, a
diversi tipi di incidenti dovuti a distrazione, abuso di alcol, comportamenti
impulsivi e strafottenti. In questo stesso periodo e all’interno di questo
contesto si manifesta il suo rituale
autodistruttivo: comincia con un capello che tira alla radice, ne mordicchia il
bulbo, lo guarda e lo getta via per ricominciare con un altro , e un altro
ancora. A volte è un piccolo gruppetto di capelli, altre volte vere e proprie
chiazze che per un certo periodo l’hanno costretta alla rasatura completa per
mimetizzarle.
Un altro importante particolare è che questa
operazione viene eseguita anche sulle gambe, tutt’ora oggetto di grande
vergogna per i segni che vi sono rimasti: piccoli buchi dove si radica il pelo.
In realtà R. asserisce di essere molto pelosa e di scatenare la sua rabbia
sulla peluria con questo comportamento ossessivo tutte le volte in cui è
particolarmente ansiosa o agitata. Prima di venire da me, ha seguito una terapia cognitivista per qualche anno con
una giovane collega con il risultato di ridurre significativamente per un certo
periodo di tempo il comportamento ossessivo, ma di non risolverlo del
tutto. Quando viene da me, al contrario,
il comportamento ossessivo si è ripresentato con più accanimento di prima :
quello che R. vorrebbe ottenere con un nuovo percorso terapeutico è capire
“perché”, e soprattutto ricevere un aiuto per vivere meglio.
Identificazioni.
Se rileggiamo questa breve sintesi della storia di R.
si evidenzia immediatamente come la stessa abbia scelto come modello di
identificazione il padre, descritto come impulsivo e violento, piuttosto che la
madre, considerata passiva e fragile.
Sembra infatti che nella storia del proprio sviluppo, le componenti maschili
(paterne) abbiano preso il sopravvento rispetto a quelle femminili della sua
personalità. O, per lo meno, che i due aspetti siano cresciuti in modo
disarmonico e conflittuale, scatenando nel corpo stesso pulsioni di segno contrario
ed opposte, ma ugualmente intense. In questo senso la cute e il capello ( o pelo) che dalla prima ha
origine, sono gli elementi simbolici che meglio rappresentano questa lotta
interna, rappresentando la storia della propria stessa nascita da un materno (
la cute) da cui accanitamente si vuole staccare.
Problematica
relazionale
Ne consegue chiaramente come le relazioni intrapsichiche
e interpsichiche di R. siano improntate su una forte ambivalenza e
conflittualità .
Le immago genitoriali e le dinamiche identificatorie
mettono in evidenza come la giovane ricerchi da un lato un compagno forte cui contrapporsi violentemente, dall’altro garantirsi un rapporto stabile che
la sostenga e la “nutra” affettivamente
liberandola dalla paura dell’abbandono e della solitudine sofferta
attraverso le vicende familiari.
Inoltre, la non accettazione della propria fragilità
emotiva e della propria vulnerabilità, tenute malamente sotto controllo nelle
interazioni sociali, unitamente alla consapevolezza dei propri “buchi”
affettivi, scatena in lei la paura di soffrire e pertanto l’attacco difensivo
verso chi la accosta o atteggiamenti di diffidenza volti a “tenere lontani”
quanti cerchino di entrare in contatto con lei con maggiore profondità. In tal
senso anche la peluria che a suo dire ricopre abbondantemente il suo corpo,
risulta essere un “manto” protettivo per evitare di avvicinarsi o farsi
avvicinare dagli altri. La paura di
soffrire, la paura di subìre un (altro) abbandono, inducono R. ad evitare le
relazioni affettive, o a distruggerle preventivamente, ripetendo in modo simbolico il medesimo copione.
Il percorso
Decidiamo di incontrarci una volta alla
settimana. Fin dall’inizio R. aderisce
al setting con precisione e serietà, malgrado talvolta i suoi aspetti ribelli e
disordinati la mettono in difficoltà. In questi casi si dimostra sinceramente
costernata e in difetto verso le regole stabilite, chiedendomi ripetutamente
scusa e “perdono”. Un aspetto
decisamente opposto a quello che normalmente esibisce e che fa capo ad un
profondo sentimento di colpa. Lavoriamo insieme per due anni senza
interruzioni: è una terapia lenta e difficile. R. si confronta con le sue
tematiche distruttive, arginando faticosamente gli impulsi che le procurano incidenti banali, ma fastidiosi, o in accese polemiche con tutti
coloro che per qualche motivo le sbarrano il passo o la ostacolano o la
contrastano. Fatica molto a misurarsi con le difficoltà quotidiane e a
ridimensionare i suoi progetti, spesso poco realistici.
Non avendo consolidato dentro di sé una fiducia di
base stabile, R. vive il mondo come ostile o comunque minaccioso, mettendo in
atto atteggiamenti di sospettosità e di diffidenza se gli altri le si
avvicinano in modo amabile. Sostanzialmente è convinta di non potere essere
amata , il che contribuisce a mantenere un’immagine di sé negativa, sostenuta
dai propri comportamenti mutilanti e dalle conseguenze che ne derivano.
Durante la terapia riesce a concludere il rapporto
sentimentale che per lungo tempo aveva costituito un sicuro appoggio e un
antidoto alla sua paura della solitudine, ma contemporaneamente noia e
stanchezza per la personalità delicata e sensibile del ragazzo, troppo
“femminile” per i suoi gusti. Alternando momenti di profonda contraddittorietà,
e sopportando il peso della colpa , essendo stata lei l’artefice della rottura
sentimentale, comincia un nuovo ciclo che la spinge ad occuparsi maggiormente
di sé stessa e della sua crescita interiore. Pur continuando ad aggrapparsi
alle proprie convinzioni, altalenando stati d’animo opposti, riesce tuttavia a dedicarsi alla cura del
proprio aspetto femminile, rinnovando il
taglio dei capelli e ricorrendo più spesso
al trucco degli occhi, prestando
maggiore attenzione all’abbigliamento e, in generale, rivolgendo a sé stessa
più attenzione e benevolenza.
Conclude con successo il primo triennio della facoltà
universitaria, raggiungendo così un primo
insperato traguardo.
La rottura sentimentale la spinge a nuove relazioni e
alla inevitabile ricerca di una sostituzione
attraverso esperienze e diverse conoscenze.
Nell’estate successiva, R. decide di provare una esperienza di volontariato
sociale in un paese dell’est. Malgrado
le molte incertezze e indecisioni la costringano a continui ripensamenti, convinta di non essere all’altezza della
situazione, ma decisa a provarci, riesce a partire. Durante il periodo all’estero succede quello
che non si aspettava: un incontro (tra gli altri) di grande intensità emotiva
con un ragazzo francese , sette anni più giovane di lei. E’ una “storia” che va
oltre le sue aspettative, che la disorienta, che la spaventa per la forza che
contiene.
Quando torna le brillano gli occhi e le risplende la
pelle, e ha acquisito tutto d’un colpo la consapevolezza di potere (almeno) piacere,
se non quella di essere amata. E’ questa infatti l’esperienza che più di ogni
altra conferma la sua patologia: la sua incapacità a fidarsi delle emozioni, ad
abbandonarsi al sentire , continuando a fare appello a convinzioni del tutto
false pur di non lasciare andare gli eventi, ma invece a controllarli e infine distruggerli. La convinzione della
“impossibilità” è più forte della realtà del desiderio: la razionalità fredda e
calcolatrice ne annulla la tensione, la spinta a viverla fino in fondo. Programmaticamente,
direi scientificamente, R. uccide la storia. La distrugge come fa con i capelli
e con tutto quello che da lei ha origine: non gli dà corso, né futuro, né vita.
La annichilisce con i ragionamenti . La paura di una relazione stabile, della
dipendenza affettiva, di una intimità voluta e temuta allo stesso tempo
forniscono a R. il materiale per rifuggirla e interromperla , trovando nelle
argomentazioni raziocinanti (lontananza, differenza d’età, ecc.) le
giustificazioni più idonee.
Ancora una volta si ripete il copione rappresentato in
tutta la sua vita affettiva, ma è
cresciuta la consapevolezza delle dinamiche interne e il rituale non basta più a contenere l’angoscia
della separazione né a sostenere l’illusione di averne il controllo. Ora è più
forte il senso di perdita, la certezza di avere agito un sacrificio, ovvero il sacrificio della propria dimensione
emozionale, della parte più femminile e
profonda. Somaticamente avvengono delle
trasformazioni: la pelle del volto segnala qualche foruncolo, come se si fosse
sgranato il confine tra sé e gli altri e lo stesso facesse trapelare il fuoco
interno, la dimensione emotiva così a lungo imprigionata dall’ipercontrollo e
dalla finzione da un lato, o espulsa attraverso i frequenti acting out e l’impulsività incontrollata
dall’altro. Il conflitto sembra essersi spostato in superficie dove è più
abbordabile, più elaborabile.
La relazione
terapeutica e il transfert
Fin dai primi incontri, R. mi segnala fiducia e
accettazione. Aderisce al contratto terapeutico fissato in un incontro alla
settimana , accettando le regole del setting e mostrando in esso aspettative
realistiche. Dimostra sempre il desiderio di venire, a volte anche con
impazienza, evidenziando significativamente di avere bisogno del mio appoggio
come delle mie annotazioni sulle quali riflette ed elabora. E’ evidente che io
rappresento per lei la “madre” ideale: capace cioè di mettere insieme aspetti
femminili e maschili, sensualità e
pensiero, accoglimento dei suoi bisogni e criticità. Dall’altra parte, con ogni evidenza, R. attiva in me la mia
componente materna, depurata dei suoi aspetti emotivi ed ansiosi, ma
tenacemente disposta a “prendesi cura” di questa giovane ribelle, della sua
crescita psicologica, della sua necessità di strutturare la sua identità in
modo più adeguato. Il rapporto pertanto si stabilizza nella sua
complementarietà adattandosi alle diverse fasi di un processo lungo e faticoso.
Evoluzione
Nel corso dei quattro anni di terapia , la terapia
stessa ha subìto delle trasformazioni. Dopo un certo periodo di tempo, infatti,
ho cercato di sollecitare il suo processo di autonomia proponendo a R. una
interruzione della terapia e uno sganciamento dalla mia presenza. Erroneamente
forse, avevo creduto che i risultati fino a quel momento raggiunti potessero
bastare per rendere R. capace di sostenere una separazione, evitando che il
rapporto di dipendenza che si era strutturato si consolidasse ulteriormente.
Spiegandogli le motivazioni che mi avevano indotta a
tale proposta nel modo più chiaro possibile, il mio annuncio acquisì per R. il
senso di un “abbandono” rimettendo in gioco le reazioni già sperimentate nelle
sue vicende familiari. Discutemmo insieme il significato di ciò che stava
accadendo e, senza mai sottrarre del tutto la mia presenza e il mio appoggio,
decidemmo di provare a staccare per un certo periodo i nostri appuntamenti
favorite fra l’altro dal periodo estivo e dalla pausa delle vacanze. Tuttavia immediatamente avvertii
che la mia proposta era stata prematura e che non era stata accettata. Contemporaneamente
mi accorsi però che il nostro legame era in grado di tollerare quella mossa , e
che non era stato distrutto. Prevedibilmente infatti, alla fine dell’estate , i
nostri incontri ricominciarono al ritmo di ogni quindici giorni, verificando
che l’interruzione era servita ad entrambe per prendere coscienza della
dipendenza terapeutica e della sua funzionalità rispetto al processo di
cambiamento e di crescita che stava continuando. Con sbalzi avanti e passi indietro,
avanzamenti e regressioni, R. riusciva sempre di più a sostenere il propri
conflitti evitando di cadere in comportamenti particolarmente dannosi. In ogni
caso era maggiormente padrona della propria impulsività, più critica di fronte alle proprie “sbracature”,
più consapevole delle implicazioni
contenute nei propri incidenti.
Elementi
diagnostici
Da quanto esposto è facile ricondurre la problematica
di R. nel quadro del disturbo borderline di personalità. I repentini cambi d’umore, la frequenza delle
crisi impulsive, la scarsa capacità di mantenere un progetto, la difficoltà a
contenere le proprie reazioni emotive,
rientrano perfettamente nel quadro nosografico del paziente borderline .
Tuttavia la solidità della nostra alleanza terapeutica ha nel tempo costituito
un contenitore efficace per ridimensionare i picchi di questo quadro clinico,
riuscendo a fornire una stabile chiave di lettura e di autoconsapevolezza dei
propri comportamenti. Oggi R. è in grado di comprendere senza il mio aiuto le
dinamiche emotive e i significati sottostanti alle proprie difficoltà e, se
non è guarita ( nel senso della risoluzione ) dai propri comportamenti dannosi,
ha certamente una maggiore padronanza degli stessi.
Da poco R. ha edificato anche un rapporto con i propri
sogni, verso i quali precedentemente aveva eretto una barriera difensiva di
rimozione e dimenticanza. Adesso non solo è in grado di conservarli nella
memoria, ma anche di attribuirgli significato, elaborarli, rifletterci.
Rimane sempre un rapporto difficile e contraddittorio
con la propria femminilità. Anche in questo caso oscilla tra momenti di
grandiosità verso la propria immagine ad altri di totale rifiuto, di odio verso
il proprio corpo non rispondente all’immagine ideale di sé.
Eppure, suo malgrado, è diventata più bella, più
seducente, più donna. Dentro il suo corpo convivono la ragazzina impulsiva e
ribelle di sempre e la giovane donna consapevole dei propri limiti, ma anche
delle proprie risorse. Il “pelo” sempre spaccato in due dai suoi ragionamenti
ossessivi, ha perso un po’ del suo potere, pur servendosene ancora per
difendersi dalle proprie paure.
Tante volte mi sono chiesta fino a quando potrà durare
la nostra relazione terapeutica. Come e quando poterne decretare la fine. Credo
che sarà la vita a farlo, le inevitabili scelte che R. dovrà compiere per il
suo lavoro , per il suo ingresso nel mondo, sganciandosi definitivamente dalla
dipendenza materna reale e terapeutica nella quale ancora vive. Le sue ambizioni
si sono ridimensionate, ed è quasi giunta a concludere il secondo ciclo di
studi universitari e a completare la specialistica. Forse la terapia resisterà
ancora a lungo nella mente di R., sarà interiorizzata, diventerà parte di sé
per sempre.
Credo infatti sia questo l’unico vero esito possibile,
l’unico modo perché un paziente possa giungere a sostenersi da solo, memore che qualcuno l’ha
fatto per lui.