domenica 30 ottobre 2016

Incontrarsi in terapia


Un buon incontro, nella stanza della terapia, avviene fin dal primo momento. Quasi sempre anche prima: al telefono o via email, al primo contatto per fissare un appuntamento. La voce, la risposta ad una richiesta, sono già elementi che predispongono all'incontro vero e proprio. Ne rimangono le prime impressioni, le prime  informazioni.
Poi finalmente ci si vede. Ad accogliere la persona che ha chiesto l'incontro non è solo il terapeuta, ma lo spazio dove tutto ciò avviene. E' la stanza, i suoi colori, le sue luci, la sua atmosfera.
Adesso ci si incontra con lo sguardo, con la stretta di mano, con l'ascolto e l'attenzione. Così inizia il racconto.

Quasi sempre al primo incontro è possibile cogliere un certo imbarazzo, una lieve quota di ansietà: come cominciare, da dove cominciare? E' importante ogni cenno, ogni sorriso, ogni interpunzione per fare in modo che la narrazione inizi, non importa da quale punto della storia. Ma che inizi. Poi il suo svolgimento verrà gradualmente a scorrere, ad andare avanti e indietro o restare al presente, spesso a confondersi, a ingarbugliarsi. Saranno le domande che il terapeuta comincia a porre, il suo sottolineare qualche informazione, i suoi commenti. Ma soprattutto il clima che riesce a creare, la risonanza emotiva che riesce a trasmettere.

Nei primi incontri si consolida la conoscenza. Non solo del problema, ma delle reazioni, del linguaggio, delle modalità espressive che accompagnano il motivo del disagio vero e proprio , della capacità di comunicazione. Si comincia a delineare un quadro, a partire dalla cornice , poi lo sfondo, e fare emergere via via i tratti, le figure, i particolari, i colori, le sfumature. La stanza intorno assiste a questo particolare processo di conoscenza: lo avvolge, ne è parte integrante, testimone di una intimità sempre più profonda. Quello che viene definito setting è lo spazio, il tempo, la durata in cui quell'incontro avrà luogo.

Ma che relazione è quella terapeutica? Si dice che sia una relazione di aiuto. Ma non basterebbe un compagno, un amico, un padre? Perchè è così speciale? In realtà è una relazione complessa nella quale si intrecciano aspetti affettivi, emotivi, erotici, intellettuali che continuamente rimandano a ulteriori relazioni senza che queste ultime possano mai essere sostituite del tutto dalla prima: per quanto questi aspetti siano presenti e vivano nella stanza della terapia, tuttavia non si può essere del tutto amici, nè madri o figli, né padri o maestri, né innamorati o amanti. Eppure, come in una sequenza di specchi a tratti deformanti, in ogni relazione terapeutica si muove tutto questo. Ne è la linfa, il nutrimento, il motore.

E il terapeuta? Chi è questo mentore che ascolta, prende, sostiene, domanda, rielabora , restituisce? Di sé parla poco, quasi niente a volte, lasciando forse intendere di essere sapiente, perfetto, illuminato, arrivato. Arrivato dove? Come afferma Jung, nessuno può andare al di là di dove sia giunto esso stesso. E' difficile definire il suo ruolo. Ogni terapeuta porta in campo non solo la sua preparazione e le sue conoscenze, ma ancor di più la sua esperienza. Ognuno ha il suo modo per farlo, ognuno è lì con la sua personalità, il suo carattere, le sue ferite, i suoi travagli: il buon esito non è per nulla garantito. E' un lavoro lungo e faticoso che coinvolge entrambi. Così come lo stesso terapeuta può essere amabile e comprensivo per l'uno, per l'altro potrà essere arrogante e distruttivo. Dipenderà da cosa si cerca in lui. Dalle aspettative e dagli investimenti affettivi. Dall'intreccio di fattori intellettuali ed emozionali, dalla fiducia, dalle pretese, dalle illusioni. Sono questi gli aspetti che in terapia giocano un ruolo fondamentale, più ancora di quanto esplicitamente verbalizzato.
Essendo io una donna, sono stata vissuta molto spesso come una madre accogliente e benevola; altre volte come una madre fredda e distante. In entrambi i casi ero sempre io: ma se per l'uno ero il contenitore accogliente dove rifugiarsi, per l'altro ero lo specchio di esperienze passate, l'ombra di relazioni infelici. A volte sono stata confusa con un'amica, scambiata per una sorella, desiderata come un'amante.

Si, perchè poi c'è l'Eros. Ritengo che in ogni terapia una certa quota di eros sia indispensabile. Senza amore per la conoscenza, senza attrazione per il lavoro introspettivo, senza una buona dose di umana simpatia l'uno per l'altro, la terapia diventa luogo di esercitazione intellettualistica, senza spessore e senza anima. Non può esserci terapia se non c'è desiderio. Desiderio di cambiare prospettiva, di entrare nei territori sconosciuti di sé stessi, di mettersi in gioco e di confrontarsi con l'Altro. L'altro in sé, l'altro fuori da sé. Ciò che è veramente terapeutico nell'incontro tra uno psicoterapeuta e il paziente è la relazione stessa. Una relazione dove entrambi sono attori di un processo che non conoscono, e di cui faranno entrambi parte. Certo è necessario che il terapeuta abbia in sé la capacità di riconoscere ciò che sta accadendo, che abbia la competenza di sapere come muoversi. Ma inevitabilmente ne sarà coinvolto, senza che questo coinvolgimento travolga il setting, ma piuttosto lo sostenga, lo consolidi. Se il paziente prova dei sentimenti di qualunque natura verso il terapeuta è inevitabile che questi non soltanto li debba accettare, ma che debba sostenere le proprie reazioni, i sentimenti che in lui suscitano. Si chiama controtransfert e, come il transfert, è di fondamentale importanza per la relazione di cui stiamo parlando. A volte accade che questo accadimento emotivo vada oltre la terapia stessa. L'innamoramento tra paziente e terapeuta è un tema discusso e dibattuto. Della sua eventualità, ogni terapeuta è consapevole. E' a conoscenza anche della sua frequenza, molto maggiore di quanto si pensi. In una situazione intima come quella della stanza della terapia i sentimenti umani non possono certo essere sospesi, ma semmai amplificati. L'idealizzazione, la fantasia, l' immaginazione favoriscono l'attrazione, il desiderio di vicinanza anche sessuale.
E' la gestione di questi sentimenti che può essere produttiva per la terapia o, al contrario, determinarne la conclusione. E non sono solo le “regole” del setting che possono risolverne la complessità , ma la scelta cosciente e motivata del comportamento da seguire. C'è un'etica professionale che detta le norme da seguire, ma c'è la pressione del desiderio con la quale ogni terapeuta si troverà a combattere. La risoluzione del conflitto determinerà il destino della terapia che spesso in casi del genere volgerà al suo termine.

In altri casi è l'aggressività ad entrare in campo. Il terapeuta diventa oggetto di attacchi di ogni genere, di svalutazione o di ostilità manifesta. Quando le resistenze a mettersi in gioco sono pesanti, quando il cambiamento fa paura ostacolandolo in ogni modo, è facile proiettare sul terapeuta la rabbia per l'inefficacia della terapia, per l'incapacità a raggiungere gli obiettivi. Anche in questo caso il terapeuta è sottoposto alla carica delle reazioni emotive proprie ed altrui, sostenendole con il giusto distacco, interpretandone le motivazioni, senza che questo non comporti uno sforzo di non poco conto. E anche in questo caso , non è facile ricondurre i sentimenti ostili all'agire terapeutico, sostenendo l'inevitabile senso di frustrazione che gli stessi possono generare, senza che questi atteggiamenti determinino la conclusione del rapporto.

Ho voluto tratteggiare un po' quello che è il rapporto terapeutico, il suo delinearsi e il suo complicarsi. Vorrei concludere con un altro argomento anch'esso complesso: il suo termine.
Nel saggio Analisi terminabile o interminabile S. Freud afferma che un'analisi non si completa mai, ma che ad essa si può porre termine se ricorrono determinate condizioni. Ad esempio se certi obiettivi sono stati raggiunti, o se la persona sente che non può andare oltre, ma ha raggiunto quel certo grado di equilibrio che le consente di continuare da sola. In realtà ad un certo momento la figura stessa del terapeuta si interiorizza producendo nel paziente una funzione critica che lo aiuta ad andare avanti. 

"l'analisi deve determinare le condizioni psicologiche più favorevoli al funzionamento dell'Io" Freud cit.

Sono questi i casi “risolti” nel senso che, seppure incompleta (perchè l'analisi dell'inconscio è effettivamente interminabile), ha tuttavia raggiunto dei risultati soggettivamente auspicabili, fermo restando che una buona terapia continua ben oltre la conclusione degli incontri, ed è sempre possibile riprenderla in ulteriori momenti nei quali il supporto del terapeuta appaia necessario. Pertanto una buona terapia rimane nella memoria del paziente come parte integrante della propria storia. Altra cosa è la conclusione di una terapia dovuta alle resistenze irrisolte e alla decisione unilaterale del paziente che non intende più continuare gli incontri. Per quanto il terapeuta ha il compito di interpretare il contenuto delle resistenze che sono alla base di tale decisione, non può certamente violentare la libertà personale di chi non è più disposto a continuare il lavoro terapeutico. Alla base delle resistenze c'è sempre il rifiuto del cambiamento, l'attaccamento ai propri atteggiamenti, alle proprie convinzioni, in definitiva alla propria malattia. Sono questi i casi in cui una terapia non ha prodotto quella funzione trasformativa che è il fondamento di ogni relazione di cura.

Per concludere, tornando al tema di questa breve esposizione, la relazione terapeutica, pur nella diversità dovuta ai molteplici riferimenti teorici, è una relazione dalla cui complessità deriva il suo svolgimento, il suo fare, la sua finalità trasformativa, aggiungendo che la stessa modifica sempre entrambi i suoi protagonisti, perchè ha a che fare con i più profondi sentimenti umani.














venerdì 10 giugno 2016

IL LUOGO DELL'IDENTITA'

In tempi di gender fluid quello che alla nascita veniva assegnato come il primo presupposto di una identità certa, anche se tutta da realizzare, è oggi sottoposto a profonda revisione critica. L'identità di genere infatti non basta più a definire i ruoli sociali, nè l'Ordine sul quale la caratterizzazione sessuale poggiava per regolamentare le interazioni tra gli individui. Maschio o femmina definiva in modo preciso l'ambito dell'agire di ognuno, le attribuzioni di potere, la categorizzazione delle reciproche possibilità di affermazione. La frequente ( e antica) non coincidenza tra sesso biologico e identità percepita è stato nel passato problema e conflitto personale, spesso fonte di grande disagio esistenziale. Oggi lo stesso trova una nuova soluzione nel concetto di fluidità che, introdotto da Bauman a proposito della società moderna, ha finito per infiltrarsi in ogni aspetto della vita indicando la strada per svincolarsi dalle strettoie delle definizioni prestabilite, allargando lo spazio transversalmente in modo da accogliere quante più possibili divergenze e contraddizioni senza alterarne la forma complessiva. Maschio o femmina pertanto non sono più definizioni essenziali per delineare la fisionomia di un individuo, ma semmai a rintracciarne i tratti e le componenti, che possono pacificamente convivere o alternarsi o sovrapporsi senza che l'individualità ne risulti confusa. D'altra parte se l'identità era prima inscritta nel corpo e nei suoi caratteri facendo della distinzione maschile /femminile il principio dell'ordine attorno a cui si organizzavano le culture, oggi la cultura del narcisismo e della tecnica può rimodellare il corpo secondo le leggi del desiderio e non secondo quelle della natura. Se già ai tempi della civiltà ellenica temi transgender percorrevano il mito, la religione e l'arte dando largo spazio alla sessualità ermafroditca degli dei, topos della perfezione, archetipo della coincidenza oppositorum, oggi, nella generale liquefazione della società, dei generi, delle prescrizioni, anche le identità fluttuano tra le molteplici possibilità di autorappresentazione, non tanto per realizzare chi si è, né per raggiungere una ipotetica perfezione, quanto per adeguarsi alle esigenze del consumo e alla pluralità di aspettative, risorse, sfide che la società globale richiede. Pertanto anche l'identità sessuale può scambiarsi, giocarsi, viversi come un abito adatto per una certa occasione e non per un altra, come una scelta non condizionata dal dato biologico, ma dalla necessità di sperimentarsi senza limiti. Il rischio di questa libertà potrebbe essere quella di negare le differenze svalutando non tanto il genere , quanto gli aspetti simbolici legati al femminile e al maschile che, come ne I Ching, solo nella diifferenza e nella complementarietà possono arrivare a quella totalità su cui si fonda tutto il cosmo.


Riferimenti bibliografici:
C.G.Jung, Animus e Anima, Bollati Boringhieri
I Ching, Il libro dei mutamenti
Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza


Pubblicato sulla rivista IN ESSE n.1

http://contanimare.blogspot.it/

giovedì 5 maggio 2016

Quando il corpo parla

Riflettendo sulla malattia


Nella visione psicosomatica ogni nostra esperienza si registra contemporaneamente o, in modo più preciso sincronicamente, nella mente e nel corpo. La contemporaneità risolve l'enigmatico salto postulato da Freud come causa ed effetto tra l'uno e l'altro piano, rintracciando nella unità fondamentale di psiche e soma la possibilità di esprimersi nei due registri in modo differente, ma nello stesso momento. Per fare un esempio ricorro alle emozioni: qualunque emozione, dalla gioia alla sorpresa, dal dolore alla paura, dall'attesa al disgusto, crea contemporaneamente una alterazione dello stato mentale e cognitivo di chi la prova, come anche una modificazione delle funzioni fisiologiche (frequenza del battito cardiaco, aumento della pressione del sangue, circolazione di sostanze biochimiche) tanto per partire da situazioni semplici e facilmente verificabili. Siamo soliti pensare che il nostro corpo sia un oggetto da noi posseduto, e non il soggetto fondamentale delle nostre azioni, pensieri, desideri. Eppure tutti sappiamo quanto si illumini il nostro sguardo nei momenti di gioia, e come tutta la nostra persona si incupisca quando sta attraversando un dolore. Senza volere fare un discorso romantico o da psicologia positiva molto di moda in questo periodo, voglio solo osservare come tutti i nostri stati d'animo, pensieri, angosce e patimenti si inscrivano nel corpo se si tratta di contenuti mentali, cosi come, viceversa , raggiungono la nostra mente e la nostra dimensione psichica quando partono da una esperienza corporea. Perchè stupirsi di fronte alla affermazione che tutto ciò che sperimentiamo avviene simultaneamente nel corpo e nell'anima, compresa la malattia, tutte le malattie. La malattia altro non è infatti che la manifestazione somatica di un disagio dell’individuo che così come viene vissuto emozionalmente e psichicamente, allo stesso tempo viene a registrarsi e ad esprimersi sul corpo. Del resto le correlazioni e interazioni tra depressione e malattie tumorali, tra sofferenze emotive e sindromi degenerative, tra ripetuti eventi stressanti e gravi patologie del sistema immunitario, tra prolungati stati di ansietà e malattie cardiovascolari sono ben note nella letteratura scientifica, ma vengono associate in senso generico e senza alcuna specificità. Aspetto invece fondamentale per capire come ognuna di queste patologie sia diversa in ogni individuo, così come la sua insorgenza, il suo decorso e il suo esito e, insieme, il suo significato, la sua funzione, la sua rappresentazione. Come dire che ognuno i questi vissuti si manifesta nel teatro interno ed esterno della persona che la vive, in modo assolutamente unico ed individuale. Non esiste la malattia, esiste il malato è il principio cardine dell'omeopatia. L’esperienza profonda della nostra vita , le nostre delusioni , perdite o fallimenti, plasmano i nostri pensieri e sentimenti, e si esprimono sotto forma di polmonite o di cancro non meno di quanto possa esprimersi in forma di nevrosi ossessiva o di isteria.
Quando uno stato ansioso si prolunga nel tempo scatena nell'organismo un disordine psico-fisico che produce gravi stati di malessere ad ogni livello , alterando le funzioni vitali e gli stessi organi che significativamente ne sono colpiti. Tutti i disordini patologici, cancro compreso, hanno la loro chiave di lettura nella psiche dell’individuo e in quello che sta vivendo o ha vissuto. Il sintomo va considerato pertanto come un richiamo inviatoci dal corpo per riportare la nostra attenzione verso quel determinato punto che ha interrotto e incrinato l'equilibrio della nostra unità psicofisica. Esso è un modo per ricondurre la coscienza dell'individuo alla consapevolezza del suo male, inteso in ogni senso e che, senza escludere i mezzi che la moderna medicina scientifica mette a disposizione, lo integra nella sua totalità con atteggiamento risoluto, orientandolo alla guarigione non vista solo come eliminazione del sintomo, ma come ricerca di una soluzione più adattiva al proprio disagio esistenziale. Non è una prospettiva nuova, né una demagogia della mente, ma una visione che, considerata già da Paracelso e da Pitagora nell'antichità, dona all'individuo la possibilità di farsi parte attiva della propria malattia, scegliendo il percorso di cura con lucidità e determinazione, piuttosto che subirlo. Si può vivere con la malattia come dimostrano tantissimi esempi, o per dirla con Oreste Speciani, di cancro si vive. Tutte le terapie, anche le più invasive, gli interventi chirurgici, e ogni altro mezzo offerto oggi dalla medicina necessita del sostegno, della capacità, della volontà dell'individuo a raggiungere gli scopi. Non è il pensiero magico che entra in azione, ma il desiderio di andare oltre se stessi, oltre il proprio dolore. Basta accettarlo, dialogare con esso senza rimuoverlo o esorcizzarlo, evitare che la sua presenza si diffonda anche dove non è necessario, viverlo senza lasciarsene distruggere, possederlo piuttosto che farsene possedere. Non è un mantra, ma una condizione dell'anima, uno stato entro il quale la vita di sempre assume altri contorni e nuovi connotati.






giovedì 17 marzo 2016

COSI' HA INIZIO IL MALE J. Marias

La mia recensione


Ci sono questioni sulle quali è meglio serbare un sospetto non troppo tormentoso, sopportabile, piuttosto che perseguire una certezza deludente o ingrata, che può metterci nelle condizioni di vivere e di raccontarci qualcosa di diverso da quello che abbiamo vissuto fin dal principio..
J.Marìas
pag.115 



La verità, la menzogna, la difficile e complessa distinzione tra ciò che è vero o reale nel passaggio tra il passato e il presente, tra azione e pensiero è la tematica centrale dell'opera di Javier Marias. In particolare egli si sofferma ad analizzare quanto la nostra vita sia influenzata e determinata da ciò che si sa o ciò che non si sa, dalla conoscenza di quel qualcosa che, nel momento in cui ci raggiunge, trasforma irrevocabilmente la nostra visione delle cose, sempre, e in modo irreparabile. Anche una rivelazione tardiva può capovolgere il mondo nel quale si è creduto di abitare. Può distruggerlo, senza che sia possibile tornare a quel che era prima. Come accade nell'ultimo affascinante “E così ha inizio il male”. Un opera che scandaglia non solo l' enigmatico ed inquietante rapporto di coppia tra un regista e la sua donna, ma anche tutto ciò che vi sta intorno, i dubbi, le reazioni, i sospetti che attraversano i rapporti di amicizia, le relazioni sociali, nel contesto ancor più ampio , culturale e politico, nel quale la vicenda è calata. Così Beatriz , durante un litigio nel quale perde le staffe, butta lì la prova del segreto che aveva conservato dentro di sè fino a quel momento stravolgendo per sempre tutta la sua vita coniugale e sentimentale, senza mai più poter tornare indietro, nè avere quello che aveva prima, ma solo subire le incalcolate conseguenze della sua rivelazione.
Non sempre sappiamo valutare le nostre forze - riflette Marìas - il danno che facciamo con la lingua ci sembra più lieve di quello che potremmo arrecare con le mani, e non è cosi.”
Ma l'opera non è certo solo il racconto di un inganno, né di un tradimento, ma della drammatica confusione che regna tra i sentimenti umani, nella congerie di contraddizioni e di ambiguità che li attraversano, indagandone ogni risvolto, ogni imprevisto smottamento, fino all'ultima delle sue 451 pagine che il lettore potrà abbandonare solo dopo averne letto l'ultima riga, in un susseguirsi di discese e risalite alla ricerca di una verità continuamente sfuggente e del senso che possa renderla sopportabile.


sabato 20 febbraio 2016

La gelosia impossibile

Nella mia pratica quotidiana mi capita spesso di incontrare persone che soffrono per amore, per gelosia, per paura dell'abbandono. Ultimamente due storie di grande sofferenza (una figlia e una madre; una giovane donna e suo marito) hanno stimolato in me le riflessioni che seguono quando gli attaccamenti  affettivi generano pretese tiranniche e trappole emotive.





In due saggi molto profondi e pregnanti , Aldo Carotenuto indaga il sentimento dell'amore mettendo al centro della vita amorosa il “tradimento”. Il tradimento infatti è dal punto di vista psicologico considerato una esperienza fondamentale per lo sviluppo e l'evoluzione fin dai primi anni , o addirittura fin dal nostro primo apparire. E' nella perdita della dimensione fusionale dalla quale siamo gettati fuori con la nascita che ogni individuo sperimenta la privazione di qualcosa che avrebbe desiderato in eterno , e per questo riedificato e reimmaginato ogni qualvolta il legame con l'Altro sembra potere ricomporre questa originaria frattura. Ma è proprio in questi casi che l'illusione di potere ricreare la simbiosi espone ancor di più alla minaccia del tradimento, del fallimento, della delusione. Scrive Gibran ne Il Profeta

Amatevi l’un l’altro, ma non fatene una prigione d’amore:
Piuttosto vi sia un moto di mare tra le sponde delle vostre anime.
Riempitevi l’un l’altro le coppe, ma non bevete da un’unica coppa.
Datevi sostentamento reciproco, ma non mangiate dello stesso pane.
Cantate e danzate insieme e state allegri, ma ognuno di voi sia solo,
Come sole sono le corde del liuto, benché vibrino di musica uguale.
Donatevi il cuore, ma l’uno non sia di rifugio all’altro,
Poiché solo la mano della vita può contenere i vostri cuori.
E siate uniti, ma non troppo vicini;
Le colonne del tempio si ergono distanti,
E la quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro

Un amore che si rinchiude su sé stesso , annullando il rapporto con la propria individualità e con l'ambiente che lo circonda esaspera il rischio di idealizzare l'altro allontanandosi dalla realtà, perseguendo un rapporto narcisistico in funzione dei propri bisogni di stabilità, senza accogliere la dimensione della distanza e della separazione.
La gelosia allora diventa lo strumento per trattenere, spiare, controllare, evitare che l' amato/a possa rivolgere altrove il proprio sguardo, alimentando il sospetto dell'infedeltà fino a farne certezza, fino alla ossessione, fino al delirio. La gelosia ossessiva poggia sul timore della perdita e dell'abbandono, alimentando una sfiducia non solo nei confronti del compagno/a ma anche , e soprattutto, di sé stessi. Il terrore che questi possa scegliere o innamorarsi di qualcun altro è connesso alla propria insicurezza, ad una scarsa autostima, spesso alla sensazione di inadeguatezza. Il vero tradimento di cui si soffre nella condizione di gelosia è la rottura delle dimensione di assoluta fusione che ogni amante vorrebbe perpetuare per sempre escludendo il mondo circostante , proiettando su quest'ultimo fantasie di annientamento, minacce di esclusione, che finiscono per deteriorare il rapporto e talora conducono al tradimento vero e proprio.
La vita all'esterno, il lavoro, gli amici, i figli sono vissuti come amanti immaginari, che riducono il tempo che una coppia ha a disposizione, che interferiscono, deprivano, sottraggono, in una spirale di idee persecutorie , di aspettative deluse, di intollerabili fallimenti. Ma ciò che veramente accade è il lutto per la perdita di quella fantasia di onnipotenza e di assolutismo che la realtà tradisce quotidianamente e che riporta alla precarietà, all' imprevedibilià del vivere. Il geloso non tollera il pensiero, la memoria, l'immaginazione che l'amato abbia una vita al di fuori del proprio controllo. Come dice R.Barthes in Frammenti di un discorso amoroso “L’altro è dunque annullato dall’amore, assorbito nella magnificenza e nell'astrazione del sentimento amoroso”, ma in realtà viene svilito, svuotato della propria individualità, ridotto ad oggetto di un desiderio morboso e distruttivo.
Citando ancora A. CarotenutoQuando si proietta sull’altro, simbioticamente, il proprio mondo interno, ci si aspetta che egli si comporti esattamente come noi: l’altro non esiste in quanto persona autonoma, perché è totalmente investito dalla nostra volontà di farlo esistere nella forma di una nostra propaggine”.
Ciò non accade solo tra uomo e donna, ma anche tra genitori e figli, tra madri divoratrici e padri padroni, in tutti quei rapporti dove il possesso non è solo riferito ai comportamenti, ma anche alla mente e ai pensieri dell'altro, giustificando con l'amore la manipolazione , l'intrusione, l' invasione, perchè dell'altro non si tollera la sua alterità. E dall'altra parte, chi subisce questa ossessività perchè in posizione più fragile, finisce per assoggettarsi ai ricatti, agli interrogatori intrusivi,  alle mortificazioni,  rendendo la propria vita impossibile .
Ma impossibile è solo la gelosia fondata sul lutto inconsolabile della perdita della fiducia di base, della sicurezza interna interamente proiettata sull’Altro, senza il quale si crede di non potere più esistere, nè essere felice.



A. Carotenuto , Eros e Pathos  Ed Bonpiani
A. Carotenuto, Amare , Tradire Ed Bonpiani
Gibran, Il Profeta  Sul matrimonio
R.Barthes Frammenti di un discorso amoroso Ed. Einaudi




mercoledì 13 gennaio 2016

ATTACCAMENTO E SEPARAZIONE



Un bambino conoscerai
non ridere....
non ridere..... 

Lucio Battisti


C'è un puer aeternus nella nostra anima. Un bimbo che non accetta distacchi e separazioni. Un bimbo la cui dimensione è il SEMPRE.
Pensiamo un attimo al bambino che viene fuori dal ventre di sua madre: grida, piange, ha freddo. Deve respirare da solo. Ha fame.
Questa è l'immagine primaria della separazione. La Gestalt originaria di un evento che nella psiche si ripeterà cento, mille volte, in altre parole sempre o , quanto meno, tutte le volte in cui siamo costretti a separarci da ciò che ci dà piacere, sicurezza, protezione, calore, stabilità. In senso mitico, la caduta dall'Eden, la separazione dal tutto, dove tutto è contenuto e non esiste il vuoto, né la mancanza. Quel bimbo appena nato è costretto ad abituarsi alla pressione dei propri bisogni, delle proprie mancanze, ad abituarsi all'attesa, alla penìa, cominciando così il lungo percorso della crescita che altro non è che un continuo adattamento. Nella teoria evoluzionistica di Darwin chi non si adatta, chi non sostiene i cambiamenti perisce, muore. Perchè la vita è cambiamento, è necessità di abbandonare fasi superate, comportamenti inadeguati e sterili, trovare nuove soluzioni ai propri bisogni, rischiare, scommettersi. Ma tutto questo mette in moto in noi l'angoscia, la paura, la perdita di qualcosa o di qualcuno. Perchè se l'anima è l'archetipo della vita e della relazione, essa non fa che tessere legami, e i legami sono difficile a sciogliersi, anche quando sono malati.

In realtà c'è una cosa sola della quale si ha paura: del lasciarsi cadere, del passo incerto, del breve passo sopra tutte le assicurazioni esistenti H.Hesse

Nella casa dell'anima non ci si separa mai da nulla, tutto continua a vivere tra le stanze della nostra memoria e nulla muore. Questa contraddizione tra la necessità di adattarsi alla realtà e l'attaccamento interiore rende il processo di evoluzione particolarmente complesso, difficile e doloroso. La memoria della simbiosi originaria , il bimbo che non vuole rinunciare alla protezione e alla dipendenza, ostacola il viaggio dell'eroe che pure è presente dentro ognuno di noi ( Neumann). L' eroe rappresenta la coscienza egoica che per evolversi deve continuamente attraversare le resistenze dell'inconscio, liberarsi dall'abbraccio fusionale della madre ( nei sogni spesso rappresentati come attraversamenti nell'acqua, o passaggi difficili, o passare da un ponte all'altro) e sfidare le imposizioni sociali per potere accedere alla propria individualità. Staccarsi dagli stati precedenti, così come dalle pressioni del collettivo significa la perdita della propria sicurezza e andare incontro al rischio di essere ciò che si è. L'eroe è colui che nasce due volte, liberandosi dalla castrazione materna e dalla inconscietà da un lato, dall'altro uccidendo il padre cioè i valori sociali e i principi che esso rappresenta, per diventare un individuo (in-dividuo) unico e irripetibile che, riprendendo Lacan, sta con la Legge, non la subisce, ma la fa propria. Significa accedere alla dimensione del desiderio che non è l'appagamento immediato di un bisogno, che è ancora un residuo infantile, ma la costruzione di un progetto nel quale la perdita ha il suo senso e il suo valore. Si perde sempre qualcosa per trovare qualcosa di nuovo. Nella realtà psichica questo processo non è né lineare né definibile una volta per tutte, ma implica un lavoro costante, una fatica che si ripete ogni qual volta è necessaria una separazione. Mi riferisco soprattutto al ritrovamento di una nuova coscienza , che è il vero scopo dell'analisi e della psicoterapia, che significa superare e trascendere la limitatezza dei bisogni e della soddisfazione dell'Io, per accedere ad una coscienza più ampia. Ancora una volta significa abbandonare lo stato idilliaco dell' Eden, i rapporti simbiotici, le convinzioni idealistiche e illusorie , scendere in basso, per trovare l'alto.

"Nessun albero può crescere fino al paradiso se le sue radici non scendono fino all'inferno”. Jung
Questa fatica di crescere, verso l'alto da un alto ( pensiamo, nella scala evolutiva al passaggio alla verticalità), radicandosi nel profondo dall'altro, è di fatto l'opera che ci permette di sottrarci alla mera ripetizione dell'istinto per entrare nel mondo dei significati e del simbolo, costringendoci a trascenderci e a superarci , ma il cui costo è l'angoscia di morte, la consapevolezza del limite.
Molto spesso dobbiamo separarci da noi stessi, dall'immagine fissa nella nostra mente che non riesce a percepire chi siamo veramente, o chi siamo diventati. La difficoltà ad accettare la vecchiaia, l'abbandono, il tradimento. E' come se nella nostra mente ci fosse sempre la convinzione che nulla possa mutare mentre tutto invece muta continuamente.
Ci attacchiamo perfino alle nostre malattie. Se -come la concezione psicosomatica insegna - la malattia è linguaggio dell'anima per mezzo del corpo, se in essa si esplicita un mal-essere che si tende ad ignorare, il sintomo non è altro che la ripetizione di un messaggio che la coscienza non intende raccogliere, rappresentando metaforicamente lo stato di ripetizione e di attaccamento ad una situazione interna che l'individuo non vuole affrontare. Come attraverso i sogni ricorrenti , l'anima ci avverte che qualcosa deve essere riconosciuto e modificato se vogliamo guarire non dal sintomo, ma dalle ferite profonde e dal dolore del vivere.  


Relazione presentata al secondo incontro del ciclo: Che luogo è l'Anima? di ContAnimare