non ridere....
non ridere.....
Lucio Battisti
C'è
un puer
aeternus
nella nostra anima. Un bimbo che non accetta distacchi e separazioni.
Un bimbo la cui dimensione è il SEMPRE.
Pensiamo
un attimo al bambino che viene fuori dal ventre di sua madre: grida,
piange, ha freddo. Deve respirare da solo. Ha fame.
Questa
è l'immagine primaria della separazione. La Gestalt originaria di un
evento che nella psiche si ripeterà cento, mille volte, in altre
parole sempre o ,
quanto meno, tutte le volte in cui siamo costretti a separarci da
ciò che ci dà piacere, sicurezza, protezione, calore, stabilità.
In senso mitico, la caduta dall'Eden, la separazione dal tutto, dove
tutto è contenuto e non esiste il vuoto, né la mancanza. Quel
bimbo appena nato è costretto ad abituarsi alla pressione dei propri
bisogni, delle proprie mancanze, ad abituarsi all'attesa, alla penìa,
cominciando così il lungo
percorso della crescita che altro non è che un continuo adattamento.
Nella teoria evoluzionistica di Darwin chi non si adatta, chi non
sostiene i cambiamenti perisce, muore. Perchè la vita è
cambiamento, è necessità
di abbandonare fasi superate, comportamenti inadeguati e sterili,
trovare nuove soluzioni ai propri bisogni, rischiare, scommettersi.
Ma tutto questo mette in moto in noi l'angoscia, la paura, la perdita
di qualcosa o di qualcuno. Perchè se l'anima è l'archetipo della
vita e della relazione, essa non fa che tessere legami, e
i legami sono difficile a sciogliersi, anche quando sono malati.
“In
realtà c'è una cosa sola della quale si ha paura: del lasciarsi
cadere, del passo incerto, del breve passo sopra tutte le
assicurazioni esistenti” H.Hesse
Nella
casa dell'anima non ci si separa mai da nulla, tutto continua a
vivere tra le stanze della nostra memoria e nulla muore. Questa
contraddizione tra la necessità di adattarsi alla realtà e
l'attaccamento interiore rende il processo di evoluzione
particolarmente complesso, difficile e doloroso. La memoria della
simbiosi originaria , il bimbo che non vuole rinunciare alla
protezione e alla dipendenza, ostacola il viaggio dell'eroe che pure
è presente dentro ognuno di noi ( Neumann).
L'
eroe rappresenta la coscienza
egoica
che per evolversi deve continuamente attraversare le resistenze
dell'inconscio, liberarsi dall'abbraccio fusionale della madre ( nei
sogni spesso rappresentati come attraversamenti nell'acqua, o
passaggi difficili, o passare da un ponte all'altro) e sfidare le
imposizioni sociali per potere accedere alla propria individualità.
Staccarsi dagli stati precedenti, così come dalle pressioni del
collettivo significa la perdita della propria sicurezza e andare
incontro al rischio di essere ciò
che si è.
L'eroe è colui che nasce due volte, liberandosi dalla castrazione
materna e dalla inconscietà da un lato, dall'altro uccidendo il
padre cioè i valori sociali e i principi che esso
rappresenta, per diventare un individuo (in-dividuo)
unico e irripetibile che, riprendendo Lacan, sta con
la Legge, non la subisce, ma la fa propria. Significa accedere alla
dimensione del desiderio
che non è l'appagamento immediato di un bisogno, che è ancora un
residuo infantile, ma la costruzione di un progetto nel quale la
perdita ha il suo senso
e il suo valore. Si perde sempre qualcosa per trovare qualcosa di
nuovo. Nella realtà psichica questo processo non è né lineare né
definibile una volta per tutte, ma implica un lavoro costante, una
fatica che si ripete ogni qual volta è necessaria una separazione.
Mi riferisco soprattutto al ritrovamento di una nuova coscienza , che
è il vero scopo dell'analisi e della psicoterapia, che significa
superare e trascendere la limitatezza dei bisogni e della
soddisfazione dell'Io, per accedere ad una coscienza più ampia.
Ancora una volta significa abbandonare lo stato idilliaco dell' Eden,
i rapporti simbiotici, le convinzioni idealistiche e illusorie ,
scendere in basso, per trovare l'alto.
"Nessun
albero può crescere fino al paradiso se le sue radici non scendono
fino all'inferno”. Jung
Questa
fatica di crescere, verso l'alto da un alto ( pensiamo, nella scala
evolutiva al passaggio alla verticalità), radicandosi nel profondo
dall'altro, è di fatto l'opera che ci permette di sottrarci
alla mera ripetizione dell'istinto per entrare nel mondo dei
significati e del simbolo, costringendoci a trascenderci e a
superarci , ma il cui costo è l'angoscia di morte, la consapevolezza
del limite.
Molto
spesso dobbiamo separarci da noi stessi, dall'immagine fissa nella
nostra mente che non riesce a percepire chi siamo veramente, o chi
siamo diventati. La difficoltà ad accettare la vecchiaia,
l'abbandono, il tradimento. E' come se nella nostra mente ci fosse
sempre la convinzione che nulla possa mutare mentre tutto invece muta
continuamente.
Ci
attacchiamo perfino alle nostre malattie. Se -come la concezione
psicosomatica insegna - la malattia è linguaggio dell'anima per
mezzo del corpo, se in essa si esplicita un mal-essere che si
tende ad ignorare, il sintomo non è altro che la ripetizione di un
messaggio che la coscienza non intende raccogliere, rappresentando
metaforicamente lo stato di ripetizione e di attaccamento ad una
situazione interna che l'individuo non vuole affrontare. Come
attraverso i sogni ricorrenti , l'anima ci avverte che
qualcosa deve essere riconosciuto e modificato se vogliamo guarire
non dal sintomo, ma dalle ferite profonde e dal dolore del vivere.
Relazione presentata al secondo incontro del ciclo: Che luogo è l'Anima? di ContAnimare