L'ospedale è un mondo che riproduce le stesse leggi dell'universo. Come ogni altro organismo vivente è regolato da un Ordine che è continuamente sottoposto alle variazioni del Caso e pertanto in una mutazione continua. Ogni giorno chi vi lavora è alle prese con la malattia, la morte, la sofferenza. Ma anche la nascita, i risvegli, le esperienze felici che rendono il lavoro di ognuno di noi tollerabile e meno pesante. Ma dentro un organismo sociale non ci sono solo lavoratori, non solo medici o infermieri o dirigenti, ma uomini e donne, madri e figli, nonni, fratelli amici. Nessuno è immune dagli stessi dolori dei pazienti che cura; nessuno è protetto di fronte alle intemperanze del caso.
E' successo ieri. Tra i tanti giovani più o meno fortunati che arrivano nelle nostre corsie, alcuni non ce la fanno. E' toccato al figlio di un collega, di un medico esperto, di un amico sincero. Non è riuscito nemmeno a provare di salvare il suo ragazzo. Eppure lo ha fatto tante volte.
Il suo ragazzo aveva venti anni. Come accade ogni volta che muore un giovane uomo, la tristezza e il lutto ci invade. Poteva accadere a chiunque di noi, ma è successo a lui. In un ospedale, dove le storie di vita e di morte si intrecciano ogni momento, e altrettanto rapidamente si sciolgono, oggi è accaduto tra noi. L'organismo ha un sussulto, si ferma. Non basta più nè l'impegno, nè la naturale rimozione dietro i nostri camici. Adesso tocca a noi, a una grande famiglia in pena, a un medico che è ora un padre avvolto nel suo dolore. E' stato il pianto di un'unica Anima oggi a dare addio a questo ragazzo, era il figlio di tutti noi.
Un silenzio irreale ha inondato l'aria. Una tristezza senza precedenti, una sentimento di dolorosa comunanza . Ancora una volta la ruota ha fatto il suo giro, sfiorandoci da vicino.
.
sabato 27 ottobre 2012
domenica 21 ottobre 2012
L'Altro in noi
Premessa
Molti anni fa, in occasione
di un convegno, sono stata invitata a trattare il tema dei trapianti sotto il
profilo psicologico.
Pur essendo passati più di
dieci anni, considero ancora quel lavoro significativo. La possibilità di
effettuare un trapianto d’organi è tecnicamente sempre più facile e socialmente
sempre più accettato. Ma rimane sempre da comprendere l’atteggiamento personale,
spesso problematico e contraddittorio, di chi compie tale scelta e la
complessità di reazioni che essa genera in chi si trova nelle condizioni di
ospitare dentro di Sé una parte estranea. Se oggi la medicina si propone sempre
più come la scienza della “frammentazione” , non si può trascurare il fatto che
il sentimento di individualità ( nel senso di in-dividuo-non diviso) sia intensamente e profondamente scovolto da
una esperienza del genere. E’ necessario accettare molte ansie, interrogativi e angosce di ogni
ordine, per accettare veramente dentro di sè una parte corporea che era
appartenuta ad un altro.
Per parlarne ho preso in
prestito due storie vere e ho intitolato il mio intervento “L’altro in noi”.
L’esperienza di un trapianto , e in
particolare del trapianto del cuore, organo centrale e fondamentale per la
sopravvivenza, è un’esperienza assai complessa in quanto coinvolge più piani
dell’esistenza e quindi più ambiti disciplinari, articolandosi ed declinandosi
tra fisico e psichico, etico e religioso, scientifico e spirituale. Ma, prima
ancora di essere della scienza, della medicina o del progresso, essa è
primariamente una vicenda umana, densa di contrasti, speranze, paure, entro la
quale la vita e la morte si sfiorano e si
intrecciano e dove l’Io e l’Altro perdono i propri confini, talora anche
il loro significato. E’ proprio in questa zona di frontiera, zona d’ombra, zona
incerta e indefinita che la psicologia può dare il proprio contributo in quanto
capace di penetrare laddove neanche il bisturi più sofisticato può penetrare.
Per farlo, mi servirò dei racconti autobiografici di due
persone che hanno attraversato questa esperienza e che, scrivendo, hanno voluto
condividere con gli altri le loro angosce, i loro dubbi nell’ attraversamento di questa zona di
frontiera dove la vita e la morte diventano vicinissime, divise solo da un
sottilissimo velo: Cristina Bono con il suo “Con il cuore in sospeso” Bollati Boringhieri e il filosofo Jean-Luc
Nancy con “l’Intruso” Cronopio.
Entrambe le narrazioni, in modo molto diverso, sono la
testimonianza di questa complessità: la prima, un diario limpido e avvincente
di quella che viene definita una rinascita attraverso un percorso irto di prove
dure e difficoltà. L’altra, una sorta di “biografia filosofica” nella quale
l’autore si interroga sul senso di
tale scelta e sulla presenza dell’intruso
in noi.
Impossessandomi un po’ delle loro storie ho potuto meglio
entrare nei pensieri, nei sentimenti, nelle immagini che accompagnano chi
decide di sottoporsi ad un trapianto, di coglierne l’intensità emotiva, la
conflittualità esplicita o latente, la sofferenza che essa comporta: è una
scelta che tocca inevitabilmente diversi aspetti, considerazioni diverse,
spesso impossibili da liquidarsi con un sì o con un no, in ogni caso difficili
da ricomporre in un’ unica risoluzione. Ognuno infine cercherà di darvi una
risposta il più possibile unitaria, che non comporti una disgregazione della
propria personalità e che tenga conto non solo delle necessità del corpo, ma
anche delle necessità dell’anima, intesa come l’insieme di ciò che ci orienta,
ci spinge, ci agita. Ciò che appunto abita e anima il nostro corpo.
Scrive Jean-Luc Nancy: E’
inutile il dibattito tra chi ritiene che il trapianto sia un’avventura
metafisica e chi lo considera una prestazione tecnica: esso è inevitabilmente
entrambe le cose, l’una nell’altra.
Ogni trapianto è infatti l’avventura di un IO tra sé e l’altro che la tecnica moderna
ha reso possibile
all’interno di un contesto sociale e culturale che ritiene
doveroso andare oltre i limiti imposti dalla natura e oltre il tempo che la
stessa ci ha assegnato: un contesto dove
le scoperte scientifiche hanno saputo scavalcare certi confini un tempo
assolutamente invalicabili in quanto fondamentalmente sacri. Ma tutto questo
comporta innanzi tutto una scelta, o meglio ancora un’insieme di scelte, di tante persone. E la
scelta è sempre un atto propriamente umano, sia esso individuale o collettivo;
risponde sempre a un dubbio, ad un ‘alternativa senza la quale non sarebbe possibile.
Il trapianto è quindi innanzi tutto il frutto di una
decisione, o meglio ancora l’esito finale di una scelta composita, fatta da
persone diverse: l’Io ricevente; l’Altro che ha deciso di donare i propri
organi o qualcun altro che ha deciso per lui; i medici che devono decidere se
esso è di fatto praticabile, se ci sono i
requisiti per iscrivere o non in una lista di attesa, anche qui scegliendo
tra un paziente e l’altro. Alla base di
questo processo di scelta che coinvolge queste persone c’è già una scelta di
base: tutti hanno stabilito che la sopravvivenza è un bene. E devono averlo deciso
in relazione a tanti fattori, sia di realtà che di opportunità: mi riferisco
all’età, alle condizioni fisiche, alle considerazioni più ampie di ordine
familiare e sociale. Una valutazione
complessa che deciderà se la vita , o meglio quella vita, possa e debba essere prolungata.
Fin qui sembra che la scelta sia un fatto puramente
razionale o tecnico , una scelta
ponderata resa possibile dalle acquisizioni
scientifiche e dai suoi progressi. Ma essa è anche un fatto emotivo,
immaginativo, simbolico. Potere estendere i propri confini, continuare a vivere
oltre la propria morte, avere in mano, o
tra le mani, la possibilità di creare ancora vita ci assimila al dio, a
un sentimento di onnipotenza che un tempo andava al di là dell’umano.
Sentimenti che abitano il cuore della scienza oltre che dei singoli
protagonisti di questa avventura. Nella scelta siamo già di fronte ad una
enormità di fattori che concorrono a determinarla e che la includono tra le
scelte più difficili da fare, in quanto biforcano o comunque alterano
fondamentalmente il proprio piano di esistenza.
Una scelta che comporta l’inevitabile peso
delle sue conseguenze, impossibili da prevedere se non in una formulazione di
tipo statistico.* Una scelta che risente del clima collettivo, dei condizionamenti
culturali, delle spinte agite dai mass media e dalle fantasie che esse suscitano.
Una scelta tra la morte e la vita, nella speranza che i due
stati possano distinguersi ed isolarsi a vicenda, senza che l’una si inserisca
prepotentemente nell’altra.
Scrive Jan-Luc:
Dal momento in cui mi
fu detto che era necessario un trapianto, tutti i segni parvero vacillare,
tutti i riferimenti capovolgersi. Senza riflettere, certo, senza individuare
nessun atto, nessun mutamento. Semplicemente la sensazione fisica di un vuoto
già aperto nel petto, con una sorta di apnea in cui niente, assolutamente
niente, neppure oggi, riuscirebbe a districare da me l’organico, il simbolico,
l’immaginario, né a separare il continuo dall’interrotto: era come un unico
soffio, ormai sospinto attraverso una strana caverna già impercettibilmente
socchiusa, un’unica impressione:di essere caduto in mare pur restando ancora
sul ponte.
*L’imprevedibilità di una simile
scelta e del carico emozionale cui la stessa connette, è bene descritto nel recente film “21
granmm:il peso dell’anima” che guarda alla problematica del trapianto dai
diversi punti di vista ( donatore/
ricevente) penetrando acutamente nella
tempesta emotiva che la stessa sollecita in tutti quelli che vi sono coinvolti.
L’ATTESA
Eccomi qui…in attesa.
Un’attesa che potrebbe durare da pochi giorni a lunghi e interminabili mesi. Un
mese è già passato: è passato in fretta e spero che quelli che verranno, se
dovranno essere tanti, trascorreranno altrettanto in fretta. Perché l’idea che
più il tempo passa più le mie energie fisiche e mentali vengano meno mi fa
enormemente paura.
Così apre il suo diario Cristina Bono.* La scelta è stata
fatta : si apre il tempo dell’attesa.
Cosa può accadere nella mente di chi aspetta un altro cuore
per non morire? Come mettere d’accordo
questo desiderio di vita che si fonda sulla morte di un Altro? Come potere
immaginativamente sopportare che questo fatto avvenga il più presto possibile?
Cristina lo risolve nell’immagine del cavaliere sconosciuto.Un’immagine mitica,
fiabesca, che l’aiuta a risolvere l’enigma di quell’ignoto donatore che con la
sua morte le regalerà la vita. Un’immagine capace di non far sentire
all’interno della propria coscienza un possibile, remoto senso di colpa, ma che
all’opposto si traduce in una fantasia di continuazione: l’altro potrà continuare a vivere dentro il mio corpo.
L’attesa è dunque densa di fantasie tra la propria vita e la
morte dell’altro, di un’ambiguità che necessita di una soluzione immaginativa
per essere meglio tollerata e che comporta un tempo fatto di ansie ,di angosce,
ma anche di speranze e di fiducia. L’ansia dell’attesa è anche densa della
paura di non farcela, di non avere forze sufficienti, morire prima.
Scrive Cristina: Quando
il corpo poco per volta ti abbandona, consumandosi lentamente come una candela
è solo la forza della mente che ti permette di continuare a lottare. A
sperare. A sopravvivere. E quando
anche la mente è stanca e si abbandona a sè stessa perdendo la voglia di
lottare?
Per attendere in alcune condizioni è infatti necessaria
tutta la propria forza interiore e la piena volontà di volersi misurare con le
limitazioni e le mancanze che ne verranno. Una situazione psicologicamente
molto frustrante che facilmente può generare depressione, disperazione,
ribellione. Dice Cristina nel corso del suo scritto che ha dovuto imparare la
pazienza, cosa per lei sconosciuta fino a quel momento. L’attesa è perciò la
fase della sfida con il tempo, con il Caso o col destino, ma più e più ancora
con sé stessi. E’ necessaria una capacità di resistenza che solo una forte
motivazione può sostenere, cui non basta il solo istinto di sopravvivenza, ma
la capacità di nutrire e sostenere in esso gli inevitabili momenti di
cedimento, di scoraggiamento. A volte infatti il desiderio di gettare la spugna
si fa più forte, più intenso. In quei momenti è inutile ogni ragionamento, o
discorso o retorica. Come dice Jean-Luc si deve solo gridare e gemere,
accogliendo in la propria vulnerabilità e attraversarla.
* L’atteggiamento di Cristina Bono, come si può subito
avvertire da questi brevi stralci, è molto diverso da quello di Jean-Luc. La
funzione sentimento sembra prevalere su quella
di pensiero che sottende il procedimento del filosofo, più speculativo e
più critico. Cristina, in modo più femminile, trova nell’immaginazione e nella
poetica della mente la risoluzione dei propri conflitti, con un’adesione
all’evento più ottimista e gioiosa anche nei momenti di maggiore difficoltà. I
due racconti sono speculari e chiunque li legga ascolterà la complementarietà di queste voci
come tonalità affettive di un unico canto innalzato alla fatica del vivere.
IL PASSAGGIO
Buongiorno Professore!
Ci sarebbe la possibilità di un trapianto.
Bene.Mi dica cosa devo
fare.
Si prepari con calma e venga in ospedale.
D’accordo, non ci
metterò molto. Abito vicino.
Ma lei dov’è adesso?
A casa.
E perché non ha risposto alla prima telefonata?
Perché non me ne ha
dato il tempo!
Il momento è giunto. Quello che per mesi si è sperato e
temuto insieme è accaduto. Un cuore è pronto per la nuova abitazione, per
un’altra dimora. Il tempo diventa ora velocissimo. Bisogna far presto,
affrontare il passaggio, l’inevitabile incognita in esso contenuta, il rischio
di non farcela. La scelta si fa più cupa, più opprimente: ma non c’è tempo ora
per la riflessione. E’ il tempo dell’agire, dell’esserci, con la consapevolezza
di dovere attraversare il non essere. Come dice Jean-Luc il trapianto impone l’immagine
di un passaggio attraverso il nulla, dell’uscita in uno spazio svuotato di ogni
proprietà e di ogni intimità,…mentre il corpo sarà spazio di intrusione di
tubi , pinze, suture, sonde. Per ora il passaggio è affidato a tutti gli altri,
meno che a sé stessi. Sarà dei medici, degli anestesisti, delle macchine. Sarà
dei familiari in trepidante attesa nei corridoi. Sarà degli altri, come del
resto tutti i più grandi eventi che ci riguardano.
JeanLuc vive questo momento come il massimo della propria
estraniazione.
Cristina lo vive come un lungo viaggio in cerca di sé
stessa.
Tutto ciò che fino a quel momento si era immaginato, o al
contario tenuto distante dalla propria immaginazione, sta ora per avvenire: l’apertura
del torace, la conservazione dell’organo da trapiantare, la circolazione extra
corporea. Paura ed euforia convivono o
si alternano in una massa caotica di sentimenti . E’ certo il momento dei
saluti.
Cristina saluta con la certezza di tornare.
IL DOPO
Il primo pensiero è sempre: sono ancora qui. Quell’io
che durante l’intervento si è ritirato in un altrove inaccessibile fa ritorno e
con esso torna la consapevolezza dell’esistere, ora, qui, ancora in questo
corpo. Come l’angelo caduto dai Cieli
sopra Berlino sono proprio i segnali
di dolore del corpo a richiamare l’Io alla gioia di esistere. Il ritrovamento
di sé sta proprio in questo miscuglio di gioia e dolore, entrambe manifestazioni
primarie dell’essere. Comincia ora
una fase lunga e difficile durante la
quale –dice Jean Luc – si va di
dolore in dolore. All’immediato dolore del risveglio, delle sonde, dei
cateteri, delle arsure , delle ferite, si aggiunge il pericolo del rigetto.
Questo corpo ancora vivo, vive con un altro cuore. L’estraneità adesso non è
più né simbolica, né psicologica. E’ immunitaria. Il corpo respinge l’altro da
sé: lo attacca. Tende a distruggerlo. Non è capace di riconoscerlo come
proprio. Per fare in modo che quell’organo improprio
così faticosamente conquistato resista all’interno del nuovo spazio
corporeo occorre indebolire la capacità di quest’ultimo di autodifendersi,
bisogna impedire la funzione del riconoscimento, rendere il sistema difensivo
inerte, inerme.
Si giunge così – cito ancora Jean-Luc – a un regime permanente dell’intrusione entro il quale la vita
stessa diventa nemica. Il corpo indebolito dalla terapia immunosoppressiva
lotta selvaggiamente per resistere. Tutto può attaccarlo. Persino il suo stesso
interno.
Continua Jean Luc:
Dall’avventura si esce sperduti. Non ci si riconosce più: ma “riconoscere” non
ha più senso. Si diventa rapidamente solo un’ondeggiamento, una sospensione di
estraneità fra stati non bene identificati, fra dolori, impotenze, cedimenti.
Qualcuno non ce la fa. A volte succede proprio nel letto
accanto, al proprio compagno di avventura.
Come per Marie. Racconta Cristina che la morte della
compagna di letto l’aveva gettata nella più pura disperazione, come se tutta la fatica fino a quel momento sostenuta
fosse stata vanificata in un attimo dalla realtà tremenda di quella scomparsa,
proprio nel letto accanto.
La battaglia continua a richiedere nuove forze, nuova
capacità di sopportare e andare avanti senza guardare indietro, senza guardare
accanto. La morte dell’altro è sempre la proiezione della nostra morte,
l’inevitabile momento in cui la rimozione di questa eventualità non regge più e
la realtà compare nella sua più elementare evidenza.
Cristina supererà anche questa prova, continuando a guardare
avanti e andando oltre la lacerazione che l’abbandono della sua compagna ha
provocato, cercando di considerare anche quell’evento come l’ennesima sfida al
suo spirito eroico, come ulteriore conferma della sua determinazione.
Superata la prima fase , assestata la terapia antirigetto,
si chiude il periodo dell’ospedalizzazione e si torna a casa. Ma il ritorno tra
le proprie cose non è esattamente il ritrovamento costante delle cose così come
si erano lasciate. L’esperienza oltrepassata ha modificato profondamente la
percezione del mondo circostante e di sé stessi. L’apertura del proprio spazio
corporeo e l’intrusione di un organo estraneo ha comunque modificato l’immagine
precedente. Quand’anche lo straniero sia stato accolto ed assorbito in sé, rimane il dubbio che esso abbia alterato la
propria originarietà e che qualcosa di
sé sia cambiato per sempre.
Che strano Io ! -
continua Jean Luc- La questione non è che mi abbiano aperto, spalancato, per sostituirmi
il cuore, ma che questa apertura non può essere richiusa…..Io sono aperto
chiuso. C’è in me un’apertura attraverso la quale passa un flusso incessante di
estraneità: i farmaci immunodepressori e gli altri che servono a combattere
alcuni effetti detti secondari. Le
conseguenze inevitabili,…..i ripetuti controlli, tutta l’esistenza posta su un
nuovo piano, trascinata da un luogo all’altro. La vita scannerizzata e
riportata su molteplici registri ciascuno dei quali iscrive altre possibilità
di morte.
Il ritorno alla normalità dunque – se ha ancora un senso
utilizzare questa espressione – è un processo giornaliero di riappropriazione e
di revisione del rapporto con sé stessi e le cose che ci circondano. Ogni
malattia offre sempre l’occasione di una trasformazione esistenziale. La scala
di valori su cui si fondava il proprio universo può variare o capovolgersi.
Dipende dalla storia di ognuno, dall’immagine e dal significato che ognuno dà
alla propria malattia e alla propria sofferenza. E’ da queste immagini e dal
senso ad esse attribuito che si può trarre la volontà e la motivazione a
combattere o, viceversa, abbandonare il campo, autodistruggersi. Il materiale
psichico è dato dalla combinazione di diversi fattori: le esperienze passate,
il grado di soddisfazione o insoddisfazione del presente, le tensioni e gli
obiettivi del futuro. E poi è dato dalle idee, dalle convinzioni razionali ed
irrazionali di ognuno di noi, dalla propria disposizione emotiva.
Un trapianto e il suo esito non è la storia dell’intervento
chirurgico né delle odierne possibilità terapeutiche. Non è possibile trovare
soluzioni ad una dimensione, né innalzare il progresso scientifico ad unico
dio. E’ necessario comprendere che l’uomo è dotato di una parte intangibile ed
inafferrabile, un daimon interiore che lo
guida ancor più delle sue capacità razionali, che anzi più spesso confonde o
annienta.
Conclude Jean-Luc : L’intruso
non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non
lo stesso Io che non smette mai di alterarsi, insieme acuito e fiaccato,
denudato e bardato, intruso nel mondo come in sé stesso, inquietante spinta
dello strano, conatus di un’infinità escrescente.
E Cristina a sua volta: Con il trapianto ho imparato a volermi bene. E
poi io e il mio nuovo cuore stiamo bene insieme. Ci siamo piaciuti subito. Sin
dal primo momento ho sentito che faceva parte di me. Non l’ho mai considerato
un estraneo….. Penso spesso alla persona che me lo ha donato. Nei momenti di
felicità riconquistata mi metto una mano sul cuore e gli sussurro un grazie.
Bibliografia:
Cristina Bono Con il cuore in sospeso” Bollati Boringhieri
Jean-Luc Nancy “L’intruso” Cronopio.
Relazione presentata
al Convegno Regionale CEFOPER : Corso di aggiornamento “L’evoluzione del S.S.N.
Disposizioni in materia di prelievi e trapianti d’organo” Nicolosi
Ct 2001
sabato 13 ottobre 2012
Non c'è amore più sincero di quello per il cibo. George Bernard Shaw
Bulimia
A differenza dell’obesità, che è una vera e propria malattia
sociale, la bulimia insieme all’anoressia è una patologia di natura
esclusivamente psichica. Inoltre essa non è necessariamente collegata ad un
aumento ponderale, ma si riscontra in persone apparentemente normali, anche
perché la loro condotta alimentare è tenuta in segretezza e pertanto sfugge
alla attenzione degli altri. Chi soffre di bulimia nervosa è portato a grandi
abbuffate, spesso notturne, cui fanno seguito comportamenti compensatori come
il vomito autoindotto , diete ferratissime, talora digiuni e uso frequente di
lassativi e diuretici. La spinta a rimpinzarsi è dovuta ad un sentimento di
grande vuoto interiore, che fa capo a relazioni affettive fallimentari o
inesistenti. Nel disperato tentativo di riempire questo vuoto, chi ne soffre intrattiene
con il cibo una relazione tossica che devasta il suo corpo come la sua psiche.
L’ossessiva dipendenza dal cibo è fonte di gravi sensi di colpa che in molti
casi inducono ad atti autolesionistici. Mentre nell’anoressia questa sofferenza
è palese e la persona anoressica non riesce a tenerla nascosta, nella bulimia
il comportamento dannoso è tenuto sotto controllo e spesso assolutamente
invisibile.
Il pensiero ossessivo del cibo “riempie” la mente proteggendola da emozioni come la
rabbia, la paura, il desiderio, che per vari motivi non si è capaci di gestire.
Il cibo, così come la bilancia e tutti i
vari meccanismi compensatori cui ho accennato, sono una potente difesa contro
altri pensieri intrusivi, al riparo della consapevolezza dei propri veri
problemi che quasi sempre sono collegati al rifiuto di sé stessi, ad un cattivo
rapporto con il proprio corpo, fonte di una tensione intollerabile, e al senso
di disistima personale.
Accanto alla bulimia vera e propria esistono “atteggiamenti
bulimici” che è possibile osservare non solo in relazione al cibo, ma in
tutti quei comportamenti ossessivi che inducono a soddisfare i propri bisogni
di natura affettiva attraverso il consumismo sfrenato, o i rapporti sessuali
usa e getta, o altre esagerazioni
comportamentali che in ogni caso risultano dannosi per la persona. Mangiare e
riempirsi e vomitare diventano parti integranti di un copione cui è impossibile
resistere.
Anoressia
Come la bulimia, anche l’anoressia nervosa appartiene al
gruppo di patologie di origine psichica. E anche questa viene considerata una
malattia del mondo industrializzato. Si riscontra più frequentemente nelle
donne, ma ultimamente è in aumento anche tra i giovani maschi. Molto spesso
bulimia e anoressia si alternano nella stessa persona, in fasi temporali
diverse o anche in una continua oscillazione tra l’una e l’altre. Nel suo
“Tutto il pane del mondo” (
Bompiani) Fabiola de Clercq racconta
molto bene come le due forme possano coesistere e rafforzarsi reciprocamente.
Il rifiuto ostinato del cibo, insieme alla amenorrea nelle
donne, alla perdita di interesse sessuale, e alla paura ossessiva di ingrassare,
viene spesso ricondotto ad un desiderio
di “spiritualizzazione”, che vede nella carne e nei suoi bisogni un
attaccamento alla vita terrena cui si intende rifuggire. Una ideologia ascetica
sembra sposare alcune tendenze ossessive della personalità che nel diniego
della materialità esalta i valori della mente e dello spirito, talora
accompagnato da un vero è proprio disprezzo o disgusto per chi normalmente ne
gode. Manca nell’anoressico il riconoscimento della propria patologia, e
dei sentimenti di vergogna e di colpa che assillano il bulimico. Al contrario l’esibizione della propria magrezza è
giustificata da scelte ideologiche o razionalizzazioni tese a sostenere ed
ostentare la propria scelta. Tutto ciò poggia
su una alterata percezione del proprio corpo che viene sempre considerato in modo
irrealistico, sottoposto ad un controllo rigoroso e costante. Spesso la dismorfofobia raggiunge
livelli estremi di distorsione percettiva che vanno anche al di là degli
aspetti propriamente legati al proprio corpo. Tra le cause psicologiche si
possono ritrovare esperienze familiari negative, delusioni sentimentali, lutti
o gravi incidenti occorsi a persone care, abusi sessuali. Il rifiuto del
problema è spesso indice di aggressività auto ed etero diretta, di ribellione, con conseguenze sul piano affettivo
relazionale e , naturalmente, sul piano della salute. Il potere fare e disfare,
mangiare e vomitare, dà l’illusione di controllo di sé e del proprio
mondo, attorno al quale gira un potente
senso di frustrazione e di sofferenza.
Come afferma Fabiola De Clercq nell’opera citata , che è il
diario della sua malattia, “Per
dimostrare la mia volontà di vivere malgrado tutto, io non vivo. Sto mimando la
vita come un’attrice interpreta una parte. Ora non sono più capace di uscirne.”
sabato 6 ottobre 2012
3. 4. 5 Ottobre 2012 “Verso una medicina capace di ascoltare"
Riflessioni sul “malessere organizzativo”
Anche la seconda edizione del corso di formazione per
operatori sanitari di cui sono stata organizzatrice e direttore scientifico
presso l’Azienda Ospedaliera ARNAS
Garibaldi di Catania si è conclusa con notevole apprezzamento da parte
dei partecipanti. Ancora una volta mi sembra inevitabile soffermarmi a fare
alcune considerazioni su quanto è avvenuto nei tre giorni di lavoro,
sottolineandone la diversità rispetto a quanto avvenuto nella prima edizione.
L’organizzazione del corso aveva inteso dividere gli
argomenti articolandoli su due aree precise : una prima area o sessione tesa ad
esplorare le problematiche più usuali
per la pratica medica, considerate però da una prospettiva psicologica e
indicando pertanto una riflessione analiticamente
approfondita riguardo a contenuti come la comunicazione
della cattiva notizia, o l’accompagnamento
nella terminalità o la modalità di
effettuare un triage attento anche
alla dimensione psichica e non soltanto strettamente medica . La seconda
sessione, più vasta rispetto alla prima anche in termini di tempi, ha voluto
invece dedicare la sua analisi all’assetto organizzativo, al clima ambientale e
al contesto entro il quale ordinariamente si svolge l’attività medica di
“cura”.
Entrambe le sessioni prevedevano una parte esperienziale e
pratica su quanto teoricamente esposto.
Lo scarto tra la prima giornata, inerente la dimensione clinica,
e le altre due inerenti la dimensione organizzativa, che nella prima edizione
aveva avuto una funzione catartica rispetto alle tensioni emotive esplicitate nella dimensione clinica, in
questa seconda esperienza si è posta da subito come spazio estraneo e poco interessante, come se l’organizzazione riguardasse in ogni caso “gli altri” e non in
qualche modo testo nel quale inscrivere il proprio contributo individuale. Se
questo era nella coscienza del gruppo il sentimento circolante, tuttavia lo
stesso non si sottraeva in alcun modo ai “compiti” proposti riuscendo a portare
a compimento quello che dichiaratamente credevano di non poter sapere fare. E’
attraverso questo gioco di negazione e partecipazione, di malcelate
manifestazioni di malcontento, che il gruppo ha messo progressivamente fuori non soltanto l’evidente malessere
vissuto quotidianamente nel proprio
ambiente di lavoro, ma il bisogno di
entrare di più a comprenderne le
dinamiche per potersi fare parte attiva
nei processi decisionali, nella definizione delle regole e in quant’altro possa
riguardare la propria parte
nell’insieme. Certo ne deriva lo scoraggiamento circa l’impossibilità di
modificare tout court la cultura organizzativa radicata nel nostro paese, ma
forse la consapevolezza (anche questa antica)
che il silenzio e la delega servono solo a rafforzarla può essere la
spinta a cambiare qualcosa nella cultura dell’operatore che, con più dignità e
coscienza, può sentirsi parte di un organismo vivo e in continuo
cambiamento, piuttosto che di una
macchina vecchia e malfunzionante.
In ultimo, oltre alla precisa richiesta di ulteriori momenti formativi che
lavorino in tal senso, è emersa con
chiarezza la necessità di una cura adeguata per venir fuori dal malessere condiviso dagli operatori sanitari
dell’azienda, dove il narrare e il raccontare
diventa strumento di cambiamento e che in questo piccolo, ma ricco, momento formativo si è avuta occasione di fare.
lunedì 1 ottobre 2012
Obesità
L'obesità è una vera e propria patologia tipica,
anche se non esclusiva, delle società cosidette "del benessere".
Essa è causata da una combinazione di fattori, compresa la predisposizione genetica. Gli aspetti psicologici e sociali , le
abitudini familiari, la sedentarietà,
l’ambiente in cui si vive , talora
anche determinati farmaci, contribuiscono a rafforzare questa predisposizione
di fondo che si correla in modo significativo ad altre patologie come il
diabete, le malattie cardiovascolari, le patologie a carico del sistema osteo
articolare e le sindromi psichiatriche. L'approccio psicologico al trattamento
dell’obesità risulta oggi riconosciuto come fondamentale per la piena
guarigione del paziente che vive una condizione psicologica molto pesante anche per gli effetti
discriminanti che il maggiore peso provoca a livello relazionale, sociale e
lavorativo. In una società come quella attuale, nella quale i valori dominanti
ruotano attorno alla bellezza, all’immagine
e alla forma fisica, l’obeso viene considerato negativamente e, se
bambino o adolescente, diviene oggetto di derisione o di esclusione dal gruppo
dei pari. In realtà è proprio il numero di questi ultimi che oggi è in costante
aumento, con gravi danni per il loro sviluppo fisico e psichico.
Recentemente si diffonde
sempre più nel trattamento degli obesi adulti la chirurgia bariatrica, ultima
sponda dopo innumerevoli fallimenti di altre metodologie. Anche in questo caso
un’attenta analisi delle problematiche psicologiche di fondo, le aspettative e le illusorie convinzioni circa i risultati,
sono alla base della opportunità o meno di affidarsi a questa metodica che talora slatentizza ulteriori difficoltà emotive
e reazioni psicopatologiche. Se il cibo, considerato l’elemento fondamentale di
“nutrimento” del proprio vuoto esistenziale, affettivo, emozionale, non può più essere “accolto” nel proprio sé,
per via della restrizione della sacca gastrica, l’individuo rischia di cadere
in depressione o in altre forme di
disagio.
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