sabato 12 dicembre 2015

INFINITA PRESENZA

Questo è la riflessione discussa da me per il ciclo di icontri "Che luogo è l'Anima?"










Come si chiama lo spazio bianco tra realtà e immaginazione? Esiste davvero? Credo che quello spazio sia l'anima delle cose.                                                                                                                                        

 H. Murakami




Nella introduzione a questi incontri, ho fatto una premessa che certamente non è stata sufficientemente chiara per evitare equivoci ( sull'anima) e malintesi. La prospettiva che ho scelto per parlare di anima come luogo, non solo è assolutamente psicologica ma, con ogni evidenza, simbolica e metaforica. Quando parlo di luogo non mi riferisco ad uno spazio fisico, ma a uno spazio simbolico, ad una metafora . E quando parlo di anima sto parlando di psiche, della psiche come sede di tutta la nostra vita affettiva, emotiva, immaginaria che costituisce la nostra esperienza dalla nascita alla morte. Quando parliamo di psiche ( o di anima) ci riferiamo a qualcosa che sta dentro di noi (l'anima individuale) anche se ognuno di noi è sempre parte di un contesto sociale, culturale, collettivo, ambientale (l'anima collettiva) cui, da un lato si appartiene (ci stiamo dentro) e che dall'altro ci abita ( sta dentro di noi). In questo senso psiche è la nostra dimora in quanto tutti i nostri accadimenti esterni sono contemporaneamente eventi psichici (interni) dei quali possiamo avere maggiore o minore coscienza, ma che si inscrivono in noi, guidando, condizionando, trascinando le nostre scelte. Dentro di noi infatti è presente un enorme carico di vicende emozionali che abbiamo non soltanto vissuto realmente, ma che ci sono state trasmesse, raccontate, tramandate e che hanno alimentato la nostra immaginazione e la nostra visione delle cose. Psiche insomma ( o anima) rappresenta il mondo interiore dell'uomo, un mondo complesso, contraddittorio, spesso caotico , dove le categorie che ordinano il nostro vivere quotidiano perdono il loro valore e non ci servono più come riferimenti certi. Mi riferisco qui a spazio e tempo: determinanti del nostro agire, del nostro pensare, ma che nella vita psichica assumono tutta un'altra valenza e un'altra dimensione. La dimensione della significanza. Cosa intendo? Quello che per noi ha un senso, un significato, esiste dentro di noi in modo assoluto anche se ci riporta al passato o a uno spazio mai vissuto, o ad esperienze solo immaginate. Pertanto nella nostra vita interiore coesistono presente e passato senza una distinzione precisa, così come lo spazio risulta essere una dimensione assolutamente diversa da quella reale e molto più complessa. Quando parlo di presenza mi riferisco alle esperienze riguardanti relazioni, eventi, situazioni che pur essendo avvenuti in altri momenti e in altri luoghi, continuano ad albergare dentro di noi, come se fossero sempre lì, presentificandosi nelle situazioni attuali, che siano relazioni affettive, situazioni sociali, investimenti di ogni genere che del passato mantengono la gestalt, la forma, ripetendosi senza posa almeno fino a quando non riusciamo a trasformarle.
Noi siamo continuamente portati a vagare tra passato e futuro, spinti dai ricordi del passato e sospinti verso qualcosa che non è ancora, mantenendo la ripetizione di un copione che ci intrappola e ci vincola. Direi che in qualche modo abitiamo in un non luogo, sospesi tra ciò che è stato e ciò che non è ancora, nel regno immaginale dei nostri pensieri, delle nostre ambizioni, del nostro desiderio, delle nostre paure.
In psicologia si parla spesso di qui e ora, l'hic et nunc dei latini. Espressione antica ma ripresa oggi da molte discipline, come la meditazione, lo yoga, le arti marziali, la psicologia. Qui ed ora significa riuscire ad essere presenti nel preciso momento dell'ora, lasciando andare il flusso dei pensieri che continuamente ci riportano là ed allora, Proprio in quel momento l'individuo può essere presente alla coscienza dell'attimo attuale della sua corporeità , del suo esserci.
L'esperienza del “qui-ed-ora” nasce nell’ambito della corrente fenomenologica, e in particolar modo nella psicologia della Gestalt che su questo concetto fonda la sua prassi terapeutica. La coscienza del presente aiuta ad ottenere il cambiamento e condurci finalmente fuori dalla coazione a ripetere verso la nostra autorealizzazione. In realtà è una esperienza molto difficile proprio perchè la nostra mente funziona nel continuo andirivieni di pensieri che si affollano, che si accavallano, si sovrappongono per cui fermare l'attimo è un esercizio molto complesso.
Nella prassi psicoanalitica l'esperienza di spazio e tempo è invece centrata sull'analisi del passato e sui sogni che come è noto sono considerati la via regia per entrare nell'inconscio. In entrambe queste dimensioni i principi , le caratteristiche, i connotati ordinari diventano straordinari. Il mondo onirico infatti, così come la memoria del resto, non obbedisce alle regole né dei nessi causali di un prima e di un dopo, né di un qua distinto da un là. Un modo per accostarsi a questa capacità dell'anima (psiche) è espressa in modo esemplare dallo scrittore H. Murakami. Scrittore surrealista, ha scavalcato nei suoi romanzi il confini del tempo-spazio per immergersi nella dimensione dell'eterno presente psichico, passando da un piano all'altro, tra realtà e immaginazione, senza scomporre i tratti della storia, ma al contrario portando il lettore nell'interiorità più profonda, nei recessi più remoti della vicenda e dei suoi protagonisti ( Dance, dance, dance). Un'operazione analoga a quella operata in pittura da Salvador Dalì: il primo che sia riuscito a trasferire sulla tela i contenuti inconsci della mente, le pulsioni, gli incubi, le paranoie e i deliri dell’uomo del Novecento, trasmutandoli in immagini.
Nella realtà psichica spazio e tempo non esistono.
Dovremmo infatti sapere che il tempo è un arbitrio dell’Io, un’escamotage dell’intelletto che ci consente di vivere la nostra piccola finestra di esistenza, ordinandola e strutturandola in un prima e in un dopo, necessari per collocarci e per collocare le nostre esperienze. Il tempo interiore invece è sempre un incontro di più tempi, è una temporalità fatta di stratificazioni, non sequenze di fatti , ma sovrapposizione di fatti soggettivi, rivissuti in un tempo unico, quello attuale. Possiamo dire che il remoto è nell'attuale. Possiamo pensarla come un temporalità transfenomenica che si costituisce attraverso la memoria e il racconto, e nel quale la presenza di un altrove è coesistente al tempo presente.
Pensiamo a come le nostre esperienze infantili rimangano fissate nella nostra psiche
riattualizzandosi continuamente nel tempo presente. Pensiamo a quanto i nostri traumi infantili possano continuare ad agire anche in età matura mascherati magari, ma in fondo inalterati. Continuiamo a proiettare nelle vicende attuali le ferite del passato, le relazioni primarie, le ambizioni fallite, continuamente in cerca di trovarvi una soluzione, una compensazione, insomma una risposta. Ma fino a che non riconosciamo da cosa originano rischiamo di ripetere inconsciamente senza fine (infinitamente) gli stessi comportamenti, o le stesse scelte, andando incontro a nuove frustrazioni, a nuovi fallimenti. Sto parlano delle ferite dell'anima , dei traumi psichici , che rimangono nella nostra psiche pronte a sanguinare ogni qualvolta qualcosa torna a sfiorarle negli accadimenti di oggi, come se il tempo non fosse mai trascorso e il dolore immutato. Si è vero che in terapia si lavora per l' elaborazione delle ferite, per il loro rimarginarsi e divenire cicatrici, evitando che possano ostacolare in modo pesante la vita di ogni giorno, ma quand'anche questo lavoro si compia nel migliore dei modi, nella nostra psiche rimangono sempre presenti, vive, pronte, dolenti. Penso alle perdite, ai lutti, ai fallimenti, tutte quelle situazioni che finiscono con una morte, letterale o simbolica che sia , ma che dentro di noi non muore mai. L'anima pertanto vive in un tempo eterno, e in tal senso è immortale.
C'è un'altro punto sul quale voglio riflettere a proposito dell' infinita presenza che dimora nella nostra anima. É la pluralità di aspetti, di componenti o, come nel Sostiene Pereira di Tabucchi una enorme quantità di Io che rendono la nostra psiche individuale un insieme infinito di presenze delle quali solo uno diventa L'Io egemone. L'uno , nessuno e centomila del nostro Pirandello, e il politeismo dell'anima di J.Hillman. Questa compresenza di ombre e luci , di aspetti noti e ignoti, di stanze sconosciute che nella nostra dimora interiore si aprono o si chiudono come avviene in molti sogni (ricordo qui alcuni sogni di un mio giovane paziente), regni sotterranei, cantine oscure, soffitte inesplorate: tutte immagini della complessità della nostra psiche di cui conosciamo solo gli aspetti nei quali pretendiamo di riconoscerci. A tal propositi Freud dice che l'Io non è padrone a casa sua. E Jung afferma che l'Io non è altro che un complesso della nostra totalità, una nota a margine del nostro Sè. Noi possiamo essere simultaneamente puer e senex, adulto e bambino, genitore e figlio, giudice e trasgressore, senza che questo diventi una contraddizione se sappiamo viverli pacificamente integrandoli nella nostra coscienza in modo armonico e consapevole. Solo la negazione o la repressione di alcuni aspetti di noi può divenire un pericolo per il nostro equilibrio.
L'ultimo punto è quello che riguarda la psiche collettiva o, se vogliamo, l'essere in anima: se da un lato ogni individuo contiene dentro di sé tutto ciò che riguarda la propria esperienza personale, è anche vero che negli strati più profondi della nostra anima si riflette l'esperienza collettiva, che pur riferendosi a tempi e luoghi mai direttamente conosciuti, opera in noi attraverso gli archetipi, gli universali, che rappresentano il mondo dell'Uomo e dell'Uno, e del suo sviluppo fin da sempre. Torno a questo proposito un momento a quello scrittore giapponese che ho già citato e al suo Sotto il segno della pecora ( una delle prime opere datata 1982). In questo romanzo direi esoterico si svolge una caccia alla pecora, una pecora particolare, che altro non è che l'uomo arcaico dentro di noi. Solo ritrovandolo dentro possiamo renderci conto di quanto stratificata sia la nostra psiche e come il nostro personale destino sia il riflesso e la riedizione del destino collettivo e delle vicende umane nelle quali in ogni tempo e in ogni luogo siamo fondamentalmente immersi. Lo stesso uomo arcaico è quello che tornerà in Dance Dance Dance nel sotterraneo buio e polveroso di un modernissimo albergo (opera già citata). Lo spazio quindi ( o il luogo) abitato dall'anima è un luogo antico, sconosciuto ma che facilmente si sovrappone al nostro essere qui, nel mondo che realmente ci circonda, perchè in quel mondo noi siamo contenuti e con cui si attiva un rapporto di sincronicità e di compresenza, che non ha niente a che fare con i principi della logica, in quanto appartiene ad un altra logica.

Concludo con un brano tratto da questo scrittore straordinario che come pochi ha saputo penetrare nel mondo dell'anima, nella realtà psichica:

In fondo alla coscienza di ognuno di noi c'è un nucleo che non possiamo percepire. Nel mio caso si tratta di una città, Una città dove scorre un fiume, circondata da un alto muro di mattoni. Io vivo lì, anche se quel posto non l'ho mai visto con i miei occhi. Quindi non so dirti altro” (H. Murakami La fine del mondo e il paese delle meraviglie) 


Opere citate

J. Hillman Anima  Anatomia di una nozione personificata  
H.Murakami Dance Dance Dance
H. Murakami Nel segno della pecora
H.Murakami  La fine del mondo e il paese delle meraviglie
S.Dalì  La persistenza della memoria



mercoledì 25 novembre 2015

IL Caffè Psicologico 2015 -2016

Quest'anno ci dedicheremo all'Anima. Dove abita, che luogo è, quali sono i suoi paesaggi.
Ecco il programma completo degli incontri.


mercoledì 28 ottobre 2015

Cibo : il nuovo demone

Nell'era dell'abbondanza -almeno quella dei paesi capitalistici- il cibo e la sua offerta sta occupando un posto di primo piano nell'immaginario collettivo. Se nei secoli precedenti esso era tra gli oggetti di desiderio quello più eticamente accettabile in quanto intorno ad esso ruotava il culto familiare, la convivialità in genere, i rituali festivi, rappresentando il piacere nella sua forma più primitiva e quindi tutto sommato più innocente, lo stesso è oggi cacciato nell'inferno dei peccati più temibili per la salute del corpo, per la sua bellezza, divenendo una delle minacce più preoccupanti. L'ortoressia -della quale ho già scritto- sembra essersi diffusa tra un numero rilevante di persone che, nella ricerca ossessiva del mangiare sano, hanno eliminato dalla tavola tutto quello che di più gustoso su di essa ci possa essere. Che il peccato di gola abbia sostituito quello del sesso? Che la libertà sessuale raggiunta abbia suscitato inconfessabili ansie e inconsci bisogni di punizione? Se nei secoli immediatamente precedenti la pulsione sessuale e i suoi desideri erano considerati i più pericolosi per la salvezza dell'anima, nell'etica del corpo il cibo è divenuto il nemico della sua vita, e viceversa il suo salvatore, la sua medicina, la sua salvezza. Il cibo è così diventato nutrimento di fobie ed ossessioni di vario genere sulle quali proliferano le scelte vegetariane, vegane, crudiste, in primis l'abolizione di tutto ciò che proviene dal mondo animale. Sembra che la tendenza attuale vada verso la spiritualizzazione dell'alimentazione, alla rinuncia del gusto, al sacrificio del piacere in cambio di una lunga vita, libera da malattie e, perchè no, forse anche dalla morte. Nello spirito del tempo la pratica della temperanza, del sacrificio e della rinunzia si è trasferita negli studi medici, nelle palestre, templi del nuovo culto. Del resto eros e cibo hanno un legame antico, fatto di sensualità e piacere, gusto e odori, che nell'attuale ossessione del mangiare sano si è certamente impoverito. In particolare la demonizzazione della carne e di tutti i suoi derivati ha sostituito la proibizione dei comportamenti sessuali a rischio Aids del secolo scorso, predicando la castità come mezzo più appropriato per evitarne il contagio. La nuova castità alimentare non è solo, come un equilibrato regime richiede, una indicazione per evitare abbuffate, eccessi e abusi di stili alimentari certamente dannosi per la salute, ma una pericolosa diffusione di paure ossessive e ingiustificate, enfatizzate dai mezzi di comunicazione e da dichiarazioni allarmistiche, che talora conducono a scelte alimentari sconsiderate per sé stessi e per i familiari più vicini. Ricordo a tale proposito il recente film Hungry Hearts il cui commento è tra i post precedenti di questo stesso blog, nonchè analoghi casi di cronaca riguardanti la malnutrizione che alcuni genitori attuano sui figli in età evolutiva.
Per concludere, credo che ogni epoca abbia i suoi demoni considerando la virtù nei modi in cui la cultura del tempo la elabora e la definisce in base ai suoi valori e ai suoi modelli. Se oggi la virtù consiste nella temperanza alimentare è coerente con il culto del corpo e con il narcisismo individuale, mentre a livello collettivo può essere considerata compensatoria della disparità esistente tra l'abbondanza e la fame che ancora affligge il nostro pianeta.


venerdì 25 settembre 2015

Post immaginario




Dopo un lungo silenzio, ricomincio ad occuparmi del mio blog presentandovi la nuova rivista INESSE della quale , insieme a tutti gli altri collaboratori sono stata ideatrice. Vi pubblico uno dei miei articoli  Per tutto il resto visitate questo linkhttp://contanimare.blogspot.it/



martedì 26 maggio 2015

Birdman, Alejandro González Iñárritu 2014


Sarcastico, grottesco, istrionico, potente, Birdman rappresenta in modo paradigmatico la condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo stretto tra i molteplici piani di una realtà confusa con la finzione e di una finzione confusa con la realtà.

Nell’ambiente a tratti claustrofobico di un noto teatro di Broadway , corridoi e camerini, specchi e artifici di ogni genere, Riggan Thompson cerca di emanciparsi dal personaggio del Superuomo che lo ha reso famoso nel cinema hollywdiano degli effetti speciali, per provarsi sul palcoscenico dell’arte drammatica, portando con se’ tutti i pesi del suo narcisistico passato: il mancato rapporto con la figlia, il fallimento del proprio matrimonio, il decadimento della sua fama, il dubbio sulla autenticità del proprio valore. Per far questo ricorre all’adattamento da lui stesso diretto e interpretato di un racconto di Raymond Carver dal titolo “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”. Titolo che contiene tutto il dilemma esistenziale che lo tormenta.
Inseguito dalla voce del suo personaggio , divenuto ora il suo alter ego, Riggan dovrà confrontarsi non soltanto con l’ attore protagonista, la cui arroganza e competitività cerca di distruggerlo artisticamente ma, e in modo ben più drammatico, confrontarsi con se stesso, con l’immagine nella quale si è sempre identificato per ottenere ammirazione e notorietà , ma che non ha soddisfatto il reale bisogno di essere amato. In questa progressiva quanto sfumata differenziazione tra l’attore e l’uomo , cresce la consapevolezza di essere stato quello che l’Altro voleva che fosse: "Ho solo cercato di essere quello che tu volevi. Ho speso ogni singolo minuto a essere quello che non sono. Solo per essere amato da te".
Nella sequenza ininterrotta tra dialogo interiore e azione scenica , Inarritu inserisce la spietatezza dello sguardo altrui che non nell’essere ma nella performance cerca l’esaltazione del vivere e i valori da celebrare , come la società contemporanea ci induce a cercare, spingendo a credere che nella frammentarietà dei rapporti in rete e nella notorietà attribuitaci dai media si possa trovare ciò che si vuole.
Se la performance di Riggan raggiunge infine il successo e l’applauso cercato, la coscienza della propria alienazione invade disperatamente la scena interna, senza più possibilità di mistificazione nè di compensazione.


domenica 29 marzo 2015

L’Io prometeico e la volonta’ distruttiva

Rlflessioni sull’Airbus A 320 



Una enorme quantita’ di dati da esaminare, una rete di informazioni  provenienti dai piu’ sofisticati sistemi di controllo, monitor raffinati e ipersensibili non bastano ad individuare cio’ che accade nella vita mentale di un individuo, nella scatola nera delle sue emozioni, delle quali rimangono  solo le tracce  - spesso terribili -  dei gesti che ne conseguono, molto difficilmente delle sue intenzioni.  Se la tecnologia ci ha abituato al continuo monitoraggio delle prestazioni di una macchina, affidandoci ad essa con una fiducia  pressoche’  incondizionata,  non altrettanto  e’ in grado di fare con la vita psichica di chi la manovra, la cui materia immateriale sfugge a monitor e radar di controllo .  Se poi la macchina e’ un mostro meccanico come l’Airbus A320  che vola a 9000 mila metri di altezza portando con se’ il destino di centinaia di passeggeri,   e’ leggittimo  pensare che la responsabilita’ di chi la governa  abbia a che fare con l’obbligo di distinguere le proprie possibilita’ dai suoi stessi limiti, il proprio personale potere dalle necessita’ etiche.  Ma l’uomo,  com’e’ noto,  porta in se’ il germe dell’arroganza,   ancora di  piu’ se possiede tra le mani strumenti che lo avvicinano al  Dio .
Se il mito prometeico per lo piu’  dispone l’uomo eroico verso  alte forme di benevolenza, quando si innesta in stati di malessere profondo lo orienta verso azioni distruttive  e difficilmente recuperabili.  E cosa c’e’ di piu’ prometeico che volare?  Nell’ innalzarsi ai limiti del divino dell’era tecnologica, ognuno  porta con se’ le proprie ansie umane, le  ambizioni e le frustrazioni, la  volonta’ di potenza e l’istinto alla distruzione caratteristiche della sua condizione.
Andreas Lubitz  volava da non troppo tempo.  Uno stato depressivo aveva interrotto la propria carriera di pilota. Lo aveva costretto a fermarsi, a ritardare la propria formazione e rinunciare al proprio desiderio. Altre vicende forse, che ora si tentano di ricostruire,  avevano mortificato questo giovane uomo, lo avevano rigettato nel cupo pozzo della depressione. Ma Andreas non si rassegna. Anzi . Con una volonta’ di potenza ferita e rabbiosa, nel precipizio in cui sta cadendo vuole trascinare con se’  il mondo che lo circonda,  in qualche modo responsabile dei suoi mali.  Con questo stato d’animo di arrogante onnipotenza , senza piu’ distinguere la realta’ dal delirio, nasconde il certificato medico che lo interdice ancora una volta dal suo sogno,  maturando la determinazione precisa di annientarsi ,  annientando insieme a lui tutto quello che puo’:  in questo caso i 150  sconosciuti  che il caso  ha incautamente affidato al suo potere. 
Rimangono le molte domande circa un sistema di controllo che,  in un gigante superorganizzato come quello della maggiore compagnia di aviazione tedesca ,  non attenziona  a sufficienza il fattore umano:  unico elemento  che i sofisticati  monitor  computerizzati non riescono a rilevare e correggere, trascurando quei segni che solo tra umani possono avere significato.  Non solo.  Ma la tragedia dell’airbus conferma che e’ ancora l’intelligenza umana , per quanto disturbata e perversa, a mettere k.o. i sistemi di sicurezza programmati in caso di anomalia, disattivando sapientemente tutto cio’ che  puo' interferire con il proprio distruttivo progetto,  dimostrando che  e’  la sua volonta’ a dirigere le macchine e non il contrario.


domenica 15 marzo 2015

Sogni o incubi







Nella mia attivita’ professionale, mi viene raccontato quotidianamente uno o piu’ sogni. Alcuni sono definiti brutti, o inquietanti, o particolarmente angosciosi. Insomma incubi. Ma cosa distingue , se distinzione c’e’, un sogno da un incubo? La prima cosa che mi viene in  mente e’ innanzi tutto la percezione soggettiva  negativa da parte del sognatore. A volte mi viene detto:…non e’ un bel sogno, come se l’appellativo sogno fosse indissolubilmente intrecciato con la bellezza, con la speranza di un altrove, con il desiderio che cio’ che si e’sognato si possa in qualche modo avverare. I  cosi’ detti brutti sogni invece, generano riluttanza gia’ a raccontarli , sono immagini  che si vorrebbero immediatamente mettere da parte, come se ci si vergognasse di averli sognati. Inoltre l’incubo, o brutto sogno, tende a svegliare l’individuo dormiente,  penetrando  in modo immediato e duraturo sul piano della coscienza. E’ questa un’altra caratteristica dell’incubo: piu’ dei bei sogni  esso ha la capacita’ di fissarsi in modo stabile nella memoria, imprimendosi prepotentemente nella  mente. Se i contenuti dei sogni considerati buoni possono lasciare perplessi o sconcertati per la loro estraneita’ e indecifrabilita’, i contenuti degli incubi sono solitamente terrifici anche quando si tratta di immagini conosciute, ma il loro modo di presentarsi risulta sempre particolarmente disturbante, angoscioso e terrorizzante, rendendo l’esperienza onirica emotivamente intollerabile. Se, come  affermato da Freud il sogno contiene in forma mascherata la realizzazione di un desiderio inconscio inaccettabile per la coscienza, l’incubo e’ portatore di contenuti  la cui carica di aggressivita’ e /o di sessualita’  e’ addirittura insostenibile, costringendo l’individuo ad interromperlo con il risveglio.  Se teniamo presente il modello junghiano, il sogno non rappresenta solo la soddisfazione allucinatoria di un desiderio inconscio, ma ha anche la funzione di dare vita a parti di noi che non sono state adeguatamente accettate nella nostra globalita’ psichica, promuovendo l’incontro con l’Ombra o con l’emersione di altri potenti archetipi dell’inconscio collettivo: figure simboliche che destabilizzano profondamente l’assetto che l’Io si e’ dato e nel quale tenta difensivamente di riconoscersi. Piu’ la resistenza difensiva al contenuto del sogno e’ rigida e attiva,  piu’ probablita’ ha il brutto sogno di ripresentarsi, come del resto accade con  qualsiasi sogno i cui contenuti siano particolarmente significativi per quell’individuo e connessi con la necessita’ di essere integrati nella sfera della coscienza. Altre volte l’incubo ripropone al sognatore esperienze traumatiche effettivamente attraversate e che non sono state sufficientemente elaborate, rimanendo scisse rispetto al normale funzionamento psichico . La loro ripetizione rappresenta la richiesta inconscia di integrarle nella coscienza in modo da alleggerirne la tensione e di trovare una via di superamento e risoluzione. Il sogno dunque, bello o brutto, terrifico o seducente ha la funzione di  aprire una finestra sulle parti  piu’ profonde di noi, sollecitandone il contatto che, quanto piu’ ci appare estraneo,  tanto piu’ ci incute terrore.





domenica 22 febbraio 2015

Whiplash (Frustrata) , Damien Chazelle 2014


Non e’ un film musicale come in alcuni casi e’ stato definito ma,  traducendo il titolo, una sferzante frustrata alle emozioni, una  straordinaria analisi della relazione maestro-allievo, nel contesto di uno dei piu’ prestigiosi licei musicali di New York.  Lui, il maestro, e’ Fletcher , conosciuto e temuto insegnante, la cui fama e’ legata non solo alle proprie capacita’ di formazione alla musica ma, soprattutto, ai suoi inflessibili metodi di insegnamento, spinti fino ai limiti della prevaricazione sadica, pur di esaltare al massimo grado il talento di chi lo possiede. L’altro e’ Andrew, giovane batterista talentuoso ed ambizioso, abbandonato dalla madre in tenera eta’, ed intenzionato a diventare un grande nella storia del jazz. L’incontro non poteva che essere fatale per entrambi, perche’ nel rapporto che tra di essi si instaura, si proietteranno le reciproche ferite: quelle relative alla impossibilita’ di indulgere su se’ stessi e sull’altro, pur di raggiungere l’obiettivo finale. Su questa sfida, entrambi rinunciano consapevolmente ad ogni altra dimensione, affettiva, emozionale,  in quanto incompatibile con la prima.   Andrew sacrifichera’ il nascente amore verso una giovane donna alla quale non  potrebbe dedicare le attenzioni necessarie. L’altro sacrifichera’ la propria reputazione pur di non rinunciare ai propri intransigenti  principi . Una relazione che potrebbe essere considerata banale se non si ha a che fare con quel grado di simmetrica  ferocia cui il film ci fa assistere . Nello scontro nessuno risparmia all’altro scacchi ed umiliazioni, cui Andrew si sottopone con orgoglio sfidando se’ stesso oltre ogni limite.  Flechter, dal canto suo, utilizzera’ tutte le piu’sottili abilita’ manipolative per vendicarsi e distruggerlo. Tra i due si inserisce la figura del padre di Andrew: unica figura che porta in scena la dimensione emozionale, la tenerezza e la preoccupazione per una lotta  che sembra averne rigettato l’esistenza, ma che non potra’  in alcun modo interrompere.  Alla fine di una tensione indicibile,  cui lo spettatore prendera’ parte con crescente angoscia,  i duellanti riusciranno a dimostrare che la sfida valeva la pena e che entrambi saranno stati capaci di  raggiungere cio’che cercavano.

domenica 1 febbraio 2015

Il film della settimana



L’archetipo materno ha a che fare con il seno che nutre, con l’immagine dell’allattamento. E’ un tutt’uno con la sua funzione nutritiva che inizia dentro il grembo e che si inscrive nel corpo anche dopo la nascita.  Una madre che non nutre e’ quindi  un ossimoro,  il simbolo del seno cattivo, che toglie e non da’. Negando al figlio l’appagamento del piu’ arcaico degli istinti,  nega a lui  il sorriso. Negandogli la   relazione con il mondo, lo stringe in un abbraccio soffocante.  E’ quello che accade nel film di Saverio Costanzo. Mina e’ convinta di avere in grembo un bambino speciale. Oh!…tutte le madri immaginano questo in qualche modo, e  questa convinzione sostiene le cure particolari che a lui dedicano, nutrendo il corpo del piccolo di cibo e carezze, per renderlo forte e soddisfare il proprio narcisistico desiderio. Non cosi’ per Mina che, al contrario, sviluppa l’idea che il cibo possa contaminare la purezza del figlio, come anche  ogni contatto con l’esterno, con l’aria inquinata del mondo, con la troppa luce. Nel buio di questa convinzione, si rifiuta di nutrire se stessa e il suo bimbo. Allontana ogni forma di relazione sociale,  si imprigiona in un rapporto morboso ed esclusivo,  dove l’Altro e’ sempre minaccia, estraneo, nemico. Certo, anche il padre. Nella diade simbiotica madre-figlio, il padre e’ sempre l’intruso, colui che interrompe l’unita’ originaria con le regole e i compiti che  sono propri alla sua funzione. E’ quello che cerca di fare anche Jude, quando si rende conto che non puo’continuare a condividere con l’amata Mina uno stile alimentare che sta diventando assassino. Jude si ribella, non puo’ sopportare il pianto del suo bambino che ha fame. Tra i due si rompe il patto di fiducia reciproca, ognuno guarda l’altro come chi sta distruggendo la propria creatura. Jude porta il figlio dai medici, lo nutre di nascosto, lo sottrae con ogni strategia alla possessivita’ materna, infine lo rapisce pur di salvarlo. Diviso tra l’amore per Mina e la vita del figlio, chiede aiuto a un’altra madre. A sua madre. E’ un’alleanza difficile quella che stringe con lei: ambivalente, ma necessaria. E benche’ Mina sia costretta a subire un provvedimento estremo, anche con il sostegno legale, non puo’ certo derogare passivamente il suo compito materno a un’altra madre. La relazione si complica: le due si odiano. Jude , al centro, si dibatte in un conflitto devastante che produrra’ le sue conseguenze solo alla fine, nella piu’ irreversibile delle soluzioni. 
 

Il film mette in scena una grave nevrosi ossessiva individuale sullo sfondo di una sempre piu’ diffusa ossessione collettiva. Pur non trattandola direttamente il regista utilizza in modo quasi subliminale questa realta’.  Nella metropoli tecnologica nella quale i protagonisti vivono, l’uso di cellulari , sonde elettromagnetiche, calcoli computerizzati, rientrano nella quotidiana normalita’ , cosi’ come le  diverse scelte alimentari che ogni individuo puo’ compiere. Le cose si complicano quando il mito del ritorno alle origini diventa il drastico rigetto di ogni forma di modernita’ con tutte le conseguenze che possono fare degenerare il rapporto di appartenenza al proprio mondo e al proprio tempo. E’ quello che accade a Mina, nel tentativo di mantenere intatta la purezza del suo bambino, ma anche a quei molti che vedono nell’alimentazione un rischio enorme per la loro salute rinunciando ad ogni forma di piacere e di convivialita’,  e con questi alla relazione con il mondo e con la vita.

domenica 25 gennaio 2015

Still Alice: l'arte di dimenticare


L’Alzheimer e’ la malattia della perdita. Non la perdita irreversibile della vita, ma la perdita della mente intesa come contenitore dell’identita’ personale, delle esperienze, dei legami affettivi. Come se questo prezioso contenitore avesse una fessura man mano sempre piu’ larga, dalla quale fuoriescono ricordi, pensieri, emozioni. Un contenitore che si svuota della propria vita, malgrado la sua presenza fisica, malgrado il mondo che lo circonda sia ancora li, identico, ma gia' smarrito.  L’immagine di chiusura del film ne e’ la rappresentazione piu’ eloquente : nello splendente viso di Julianne Moore, gradualmente la luce si spegne, fino a quell’ultima espressione, drammaticamente assente. Per chi come me di questa malattia ha fatto esperienza diretta, personale e professionale, e’ la lontananza  di quella espressione che, al contrario, riporta indietro i ricordi volutamente messi da parte,  gli sguardi vuoti con cui ho avuto a che fare, quell’esserci senza esserci di tutti coloro a cui ho somministrato i test della memoria, ripetuto le serie di parole da ricordare, le date e le stagioni da ripassare. E, naturalmente, il volto di mia Madre. Gli ultimi anni di una presenza senza ancore, che necessariamente si e’ costretti a  sostituire per mantenerne almeno la dignita’. E' questo l’altro aspetto che il film evidenzia: le relazioni familiari e sociali subiscono lo stesso disorientamento che coglie alla sprovvista chi ne comincia ad avvertire i segnali, prima che la coscienza diventi nebbia, come succede ad Alice Howland, la brillante e ambiziosa protagonista di questo film che,  prima ancora di affidarsi alle cure del marito e alla attenzione dei figli, affida al pc e al cellulare  la memoria di se’ e l’autonomia delle proprie scelte. Ma neanche la tecnologia puo’ impedire il decadimento di una intelligenza costretta a sacrificare la propria presunzione e a fare i conti con l’imprevedibilita’ della malattia. E forse e’ proprio attraverso gli sbandamenti che il caso costruisce per i personaggi che vi sono coinvolti , che gli stessi possono riscrivere la  trama dei propri legami, mai del tutto scontati, a volte persino sconosciuti, ma sempre gli unici a potere aiutare a sopravvivere.

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