lunedì 15 dicembre 2014

Storia di Ester

Il rischio delle relazioni

Ester è una donna di 36 anni, separata e con due figli. E’ bruna, con lunghi capelli neri e carnagione olivastra che si illumina quando sorride. Gli occhi neri e quasi sempre cerchiati svelano un grande tristezza, ma sono vivaci e acuti, a tratti quasi imperiosi.
Quando la incontro per la prima volta, siamo in ospedale. Mi viene inviata da un collega neuropsichiatra che nel suo disturbo di allora, le vertigini, aveva individuato una componente psicologica da non sottovalutare.
Da quel giorno ha avuto inizio la nostra terapia e un rapporto di solida fiducia reciproca.
Il racconto che segue non pretende di ripercorrerne tutte le tappe, ma di evidenziare i passaggi  piu’ salienti.

Minore di tre sorelle, “preferita” del padre fino all’età di 13 anni, vede da quest’ultimo un mutamento  nei suoi confronti quando, ammalato e forse consapevole della prossima fine, rivolge maggiori attenzioni alla sorella più grande. Da lì a poco , il padre muore e Ester si sente abbandonata per sempre. Già adolescente si lega ad un uomo più grande di lei che sposerà intorno ai 20 anni e con il quale metterà al mondo due figli; da quest’uomo è oggi  separata di fatto. Con la madre, ancora vivente, e le due sorelle, una delle quali vive fuori dall’Italia, mantiene rapporti freddi e distanti  evitando qualunque concessione ai sentimenti, ma attenta ai doveri che i rapporti familiari esigono.

In modo estremamente sintetico ho cercato di riassumere quello che, secondo me, è il nucleo traumatico della storia di Ester, quello che ha plasmato il suo rapporto con il mondo esterno e alimentato il  conflitto tra la sua componente razionale, molto scrupolosa e severa, e le sue parti emotive, fragili e vulnerabili. Il risultato è una chiusura totale tra l’una e l’altra , un atteggiamento di assoluta diffidenza verso gli altri, massimo controllo delle proprie emozioni da non lasciare trasparire neanche a sé stessa pena il tracollo completo del finto equilibrio entro cui ha cercato di ritirarsi evitando il contatto con gli altri, e quindi la possibile sofferenza. Una convinzione ferrea e dolorosa, sottende l’assetto che Ester si è data: quella di non potere essere amata. Eppure, fin dalle prime volte, Ester manifesta il desiderio di essere ascoltata, di essere aiutata a capirsi, dimostrando apertamente di “fidarsi” di me.
Se la convinzione di fondo che Ester ha interiorizzato è quella del “non potere essere amata”, c’è n’è un’altra, ancora più rigida e resistente, con la quale motivare la prima: quella di essere “cattiva” e per questo di non meritare l’amore. Eppure nel tempo, ha fatto molti sforzi per compiacere gli altri, per avere conferme circa la sua “buona” identità: conferme che in un modo o nell’altro non sono mai state capaci di sanare le ferite ma , al contrario , di aumentare la distanza tra il suo essere autentico e la rigida maschera che ha indossato: quella della gentilezza, dell’educazione, del rispetto e della perfezione. Sotto questa veste Ester ha nascosto la sua rabbia, la sua delusione, la sua solitudine: sentimenti che quando viene in terapia non ce la fanno più a stare in silenzio, ma interiormente cominciano a “urlare”. E’ il periodo di molti sogni con grandi tavole vuote: nessun cibo, nessun commensale. Spesso tavole di marmo, fredde, di tanto in tanto vestite di tovaglie, ma sempre senza cibi . Con l’inizio della terapia, inizia per lei una nuova esperienza: si iscrive su Fb. Il desiderio di contatto, di comunicazione, di amicizia trova attraverso la pagina scarna di informazioni un nuovo tentativo di “entrare” nel mondo. Non manca molto che tra i pochissimi amici che entrano a far parte del suo giro, un uomo maturo si fa largo tra gli altri. Attraverso la chat , gli scambi, e solo successivamente gli sms, la conoscenza tra i due si intensifica e si approfondisce, diventando un’abitudine costante nella vita solitaria di Ester che, la sera, al ritorno dal lavoro, trova nello schermo del computer qualcosa che rimette in moto il desiderio, la speranza, la vita. I figli notano questo cambiamento nella vita della madre, non senza un certo disagio e curiosità, e senza che questo modifichi l’ordinata gestione dell’andamento familiare. Solo trovano la madre ancora più distante, più chiusa, e più appartata. La storia , virtuale per un bel po’ di tempo, procede a rilento, malgrado Ester cerchi di incontrare quest’uomo strano, schivo,  investendo su questa relazione molta determinazione, ma anche aggressività , se pure tenuta a bada per paura di rovinare il rapporto. Dall’altro lato, al contrario, ci sono molte resistenze e frenate, cosa che mi suscita molte perplessità delle quali parlo con lei  apertamente. Per molto tempo infatti, in terapia, ho creduto di dovere scoraggiare questa storia che continuava a mortificare il desiderio della paziente con il continuo rimando. Ester invece ha continuato a  difendere questa storia strana, attaccandosi morbosamente a lui, a non volere a nessun costo “farla morire”.  Più tardi avrei pensato che forse era proprio la sua irraggiungibilità a mantenere questa relazione così potentemente presente nella  vita di Ester : in certo qual  modo sembrava essere  la riedizione del suo rapporto con il padre, il tentativo di resuscitarlo. Il desiderio comincia ad “alimentare” anche i sogni. Le tavole, cominciano a riempirsi di vivande, e talora ad essere in festa, benchè sempre senza commensali. Ester continua a vestire come sempre:  grigio e nero i suoi colori,  sempre con molta raffinatezza. Adesso compare un po’ di rosso qualche volta: sulle unghie e su un piccolo braccialetto al polso.
Il desiderio di incontrare quell’uomo che si nasconde, che si nega, che rimanda, riempie per mesi le nostre sedute. Poi un giorno, finalmente accade.

Succede molti mesi dopo l’inizio della storia. Ester “assaggia” brevemente la realtà corporea di quest’uomo: le piace, ma il tormento prende ora un’altra forma.
Non è la distanza, o il poco tempo a disposizione che la travaglia, ma la relazione in sé. La paura di fare del male , e intanto farsi male; l’incredulità di potere accettare l’amore che  quest’uomo manifesta, la tentazione di tornare indietro, di fuggire, di non potere sopportare le possibili conseguenze . E’ il momento più difficile. Ester non riesce a tollerare gli aspetti emotivi della relazione. Piuttosto che “nutrirsi” di tutti i sentimenti che ogni rapporto mette in moto, li respinge, li rifiuta. Non sa come fare: soprattutto ha paura di fare del male a lui, di farlo soffrire. Si sente in colpa : non può essere amata, non se ne sente degna.
E intanto dimagrisce sempre più. Come se il “cibo” affettivo che le viene offerto fosse dannoso per lei. E’lì, a disposizione, ma non lo prende, non se ne nutre: piuttosto continua a respingerlo e a rigettarlo.

Sembra  proprio che, paradossalmente,  l’avere desiderato qualcosa che non c’era , o che  credeva di non potere avere, servisse a mantenere lo stato in cui si era abituata , proteggendosi da eventuali rischi e giustificando la propria frustrazione. La nuova relazione invece la costringe a mettersi in gioco, cosa a cui ha rinunziato da un pezzo sentendosi inadeguata e incapace di sostenerne i costi. 

Nel frattempo sogna di avere le gambe troppo grosse.

Spostandoci un po’, vorrei parlare di questa paziente all’interno degli altri contesti relazionali di cui fa parte. Quello che sembra occupare il posto più importante per lei è quello lavorativo. Ester lavora presso un ditta di abbigliamento da molti anni. E’ molto brava nel consigliare  gli acquisti giusti per le clienti che , infatti, vedono in lei un sicuro  punto di riferimento. Le cose si complicano all’interno dei rapporti con i colleghi e con il datore di lavoro. Com’è nel suo stile, Ester adempie in modo scrupoloso e corretto ai suoi compiti, ma il suo atteggiamento chiuso e riservato non sfugge ai colleghi che in lei vedono  poca solidarietà, approfittando di ogni occasione per sottolinearlo.

Un’altra e non certo meno importante area è quella dei rapporti familiari, in particolare con le sorelle . Con esse Ester ha condiviso l’esperienza della crescita e della definizione della propria individualità che, dopo la morte del padre, si è enormemente complicata per via della “competizione” sorta tra esse a proposito dell’amore e delle  preferenze che il sistema familiare sembrava accordare apparentemente all’una più che all’altra. Ester risolve la rivalità negandola e sottraendosi al conflitto chiudendosi in un altezzoso riserbo, entro il quale maschera la ferita e il dolore che ne deriva: quello di non essere più l’unica e prediletta, come aveva fino a un certo punto ritenuto di essere agli occhi del Padre. Malgrado la sofferenza e la gelosia che l’avvicinamento di quest’ultimo a una delle due sorelle in particolare le procura, Ester non chiede, non compete, si ritira in una ostinata quanto ostentata indifferenza, cercando  di darsi pace  giustificando il comportamento paterno attraverso una giusta  causa: il non essere più meritevole dell’amore paterno per una propria  presunta, quanto inafferrabile colpa.
Nel corso della terapia i sentimenti verso la sorella mutano e si alternano in relazione alla elaborazione del conflitto originario e della rivalità che lo sottende. Eppure da parte di entrambe  è manifesto il desiderio di tenere vivo il filo della relazione, anche se in modo convenzionale e distaccato, soprattutto da parte della paziente che interpreta con diffidenza ogni tentativo di avvicinamento da parte della sorella. E’ simbolicamente significativo in tal senso il loro scambio di doni, ai quali tengono entrambe per tutte quelle occasioni che lo richiedono ( Natale, compleanni, ricorrenze varie) ma che, pur dedicandovi particolare cura ed attenzione, non “funzionano” mai. Come se il dono, simbolo del dare qualcosa di sé all’altro, fosse tra le due inevitabilmente “intaccato” e quindi sbagliato o, comunque, non funzionale (non funzionante) a un vero scambio. Se il donare fa riferimento ad un legame affettivo che dal dono viene rappresentato e sostenuto, tra le due sorelle questo gesto non è mai puro, ma “inquinato” da qualcosa che lo nullifica o lo rende “impraticabile”.

Durante la terapia, tuttavia, questa relazione si fa gradualmente più vicina. Anche se Ester interpreta gli avvicinamenti della sorella in modo sempre alquanto negativo, tuttavia qualcosa cambia anche in lei e , dopo molti anni, la invita insieme alla madre al suo compleanno per un pranzo tutti insieme. La tavola, simbolo di nutrimento e convivialità, torna ad essere luogo di incontro familiare (ci sono anche i figli) e ad alimentare in modo circolare la relazione dalla quale  tutti sono legati. E’ un momento di grande significatività, un ritorno, un ri-abbraccio. La festa di compleanno si conclude realmente con un lungo e commosso abbraccio tra le due: per la prima volta da quando siamo in terapia,  Ester si abbandona ai sentimenti.
Emozioni e sentimenti continuano ad essere per lei fonte di ansie, di dubbi e di travaglio per lungo tempo ancora. Malgrado abbia accettato di entrare nel gioco delle relazioni, le sue paure e la sua intransigenza le rendono  sempre molto contraddittorie e ambivalenti, alimentando il desiderio di fuggirle , di abbandonarle.
Educata a un senso estremo del dovere e del rispetto, Ester non trova giustificazione agli eccessi emotivi, colpendoli duramente se questi provengono dagli altri, ma ancora di più rimproverandosi severamente per  quelli che da lei nascono. I sogni continuano a rappresentare questa difficoltà attraverso tavole da pranzo (simbolo di relazione, di convivialità e di amicizia) e grandi letti matrimoniali, luoghi di intimità e di incontro . Attorno, vi ruotano e si alternano le figure del suo presente e del suo passato.

Molto lentamente lo spazio intorno si allarga. La storia sentimentale si stabilizza e, malgrado i dubbi , Ester comincia a fidarsi e a lasciarsi amare . Più problematici rimangono i rapporti sul lavoro, dove la propria correttezza non ammette errori e quelli con le sorelle, dove l’antica e mai risolta rivalità continua a rendere difficile la comunicazione.

 Due sogni rappresentano in quel periodo la ricerca  della paziente:

Sogno di essere nel posteggio di un grande centro commerciale semivuoto. Mi aggiro a piedi in cerca del mio posto. Ma non so qual è. Mi risveglio angosciata.

Mi trovo in un deserto, sono sola. Dall’altra parte c’è lui con il suo cane, ma è indistinguibile dal resto, come se anche lui facesse parte del deserto di sabbia. Devo raggiungerlo, non so in che modo. Vedo una specie di piazzola recintata, sempre di sabbia: non so se passare di là. In ogni caso riesco a raggiungerlo.

 I due sogni sembrano descrivere ancora una volta la difficolta’ a trovare il modo piu’ adeguato per raggiungere l’Altro. Il deserto sembra sostituire le tavole vuote di un tempo, ma mettono in evidenza l’elemento dinamico costituito dal desiderio di farcela, di non soggiacere al vuoto.
E’ un periodo molto fertile dal punto di vista onirico. Sogni che ci aiuteranno nel corso della terapia a raggiungere i punti piu’ oscuri della vita interiore della paziente, delle sue conflittualita’, delle sue ferite narcisistiche e delle sue pretese di riparazione.
Lentamente anche i sogni configurano scenari diversi, non piu’ stanze o spazi vuoti, ne’ tavole desolate e tristi, ma tavole in festa, commensali, gente piu’ o meno conosciuta  con cui stare insieme.
E’ l’ingresso in un’altra fase della terapia, l’ultima, nella quale Ester raggiunge la consapevolezza di non potere piu’ pretendere che il mondo che la circonda aderisca alle proprie attese e ai propri desideri, ma che e’ necessario uno spostamento della propria prospettiva in direzione di una visione piu’ realistica della vita affettiva e sociale nella quale e’ immersa.  Ma, piu’ che altro, Ester comincia ad accettare chi e’ lei , l’Altro in lei , le sue asperita’ e le sue intransigenze , riconoscendo in esse la propria parte di responsabilità , ammettendola senza colpevolizzarla, accettandola senza per questo sentirsi “cattiva”. E’ la rinuncia alla “perfezione’,  e anche il preludio alla conclusione del nostro cammino  dopo due anni di incontri puntuali  e di profonda elaborazione dei contenuti emersi durante la terapia.
Ester ha acquisito la capacita’ di dialogare con se’ stessa e con gli altri, di accettare il “rischio” che ogni relazione comporta, comprendendo che in ognuna di esse si compendiano attese e delusioni, conflitti e allontanamenti, ma anche gioie e riconoscimenti. Capisce che e’ possibile fidarsi,  poiche’ e’ riuscita in tutti questi mesi a farlo con me,  senza sentirsi mai respinta, mai abbandonata,  anche quando  i miei commenti rilevavano le sue Ombre.
Cosi’ , dopo un sogno in cui salutava una donna apparentemente sconosciuta, Ester mi dice che si sente pronta a continuare da sola il suo percorso, a sentire dentro le mie parole, ad avermi interiorizzata.

E’ Natale. Ester come  ogni anno mi porta un piccolo dono significativo. E’ un cuore con dentro delle pantofole per gli ospiti.  Forse allude alla ritrovata disponibilita’ ad aprire  la porta della sua casa interiore, a fare entrare l’Altro dentro di se’ , ad accettare l’estraneo, come in  tutti questi mesi  la terapia ha cercato di facilitare e favorire.  Forse un modo per restituirmi il regalo che le ho fatto.  
Chissa’!....

Ci salutiamo come due grandi, intime amiche.

 
N.B. La pubblicazione del caso clinico che ho raccontato e’ stato autorizzato dalla paziente stessa  che ha scelto  il nome di Ester al posto del suo vero nome. Anche questo forse non a caso.

martedì 2 dicembre 2014

Nevrosi ossessiva: un caso clinico


 

Nella nevrosi fobico ossessiva c’e’ una frattura tra la coscienza dell’IO e le pulsioni  istintive  o,   in altri termini, tra i divieti imposti dalla coscienza morale e il desiderio ritenuto con quest’ultima incompatibile e pertanto censurato, represso, allontanato, tranne a tornare in forma mascherata e irriconoscibile nel sintomo.

I sintomi infatti non sono altro che il derivato simbolico del desiderio inconscio che il soggetto tiene a bada attraverso i suoi rituali. IL sintomo ossessivo esprime sia la pulsione, sia la difesa da essa, ma in modo che non sia riconoscibile e quindi non pensabile.

Voglio parlare a tale proposito del caso di una paziente che ho in terapia e della sua  rupofobia , ossia fobia dello sporco e della contaminazione. La chiamero’ Chiara, nome che mi viene in mente mentre scrivo , riconducendomi alla fantasia di purezza che sta alla base del suo comportamento e dei suoi rituali  per contenere la propria ansia e la propria angoscia derivante dai suoi desideri inconfessabili.

Chiara e’ una giovane donna di 43 anni, anche se ne dimostra una decina in meno per la semplicita’ con cui si presenta: niente trucco, ad eccezione del rossetto rosso alle labbra, capelli scuri ordinatamente tenuti indietro dal cerchietto, pantaloni e pullover sempre piuttosto anonimi.

Sposata ad un giovane avvocato, anch’essa laureata in giurisprudenza, educata secondo rigidi principi morali sia in casa che a scuola, conserva la sua verginita’ fino al matrimonio. Tutto sembra funzionare, pur senza grandi entusiasmi dal punto di vista sessuale,  con rapporti protetti e moderati, fino alla decisione di avere un figlio e , quindi, rinunziando alla protezione. E’ in quel momento che nella vita intima di Chiara qualcosa di disturbante  ( o dovrei dire perturbante) si insinua in profondita’ nella sua mente . Il contatto con il liquido seminale e’ un incontro poco felice per Chiara , se non addirittura schifoso, contribuendo a ridurre ulteriormente il rapporto sessuale. Tuttavia la donna porta a termine la gravidanza in modo apparentemente accettabile fino al parto che , al contrario, sara’ un’esperienza disastrosa con gravi conseguenze sul proprio equilibrio fisico e psichico. Superata la fase della nascita e del puerperio, segnata dalla depressione e dalla impossibilita’ di allattare la bimba che era nata, Chiara inizia ad essere ossessionata dall’idea dello sporco e dal terrore che , dall’esterno, possano introdursi nella propria casa ogni genere di batteri e germi. Contemporaneamente sospende completamente i rapporti sessuali. La battaglia con questo popolo di invisibili nemici inizia quando torna a casa dopo essere stata fuori, dove la propria ansia e’ come “sospesa” e in ogni caso non interferisce con i propri compiti lavorativi e sociali. Tra le mura domestiche invece Chiara non puo’ impedirsi una estenuante forma di purificazione di tutto quanto possa essere stato contaminato dal contatto con gli altri, perdendo in questi rituali igienizzanti gran parte della propria vita familiare e costringendo il marito e la bambina a sottostare alle proprie regole., restringendo il tempo da dedicare loro. Senza ulteriormente addentrarmi nel caso clinico di questa donna, tuttora in corso e  molto complesso dal punto di vista sia simbolico che relazionale, mi preme sottolineare come il sintomo fobico e la coazione a ripetere sembra essere una metafora della necessita’ di  respingere ed annullare ogni forma di contatto con l’Altro, soprattutto di natura sessuale , e pertanto una strenua difesa  sia del contatto stesso che delle sue conseguenze (la gravidanza, come principio trasformativo).  Pur emergendo in vario modo la curiosita’ sessuale, il desiderio e la spinta a liberarsi , Chiara ha sospinto indietro ogni forma di sensualita’ o di seduttivita’, confinando la propria femminilita’ ai margini di una vita noiosa, pesante, soffocante che odia, reiterando un’immagine di se’ stessa sclerotizzata e priva di alcuna creativita’. La sua aggressivita’, anch’essa respinta e repressa in quanto non accettabile per la sua buona educazione , rappresenta insieme alla pulsione sessuale motivo di profondi sensi di colpa e pertanto di ulteriore accanimento.  La castrazione del proprio desiderio inaccettabile, se pure inconsciamente presente, determina un conflitto dolorosissimo tale da spingerla alla distruttivita’ e quindi al desiderio di morte come risoluzione estrema di un dilemma insopportabile. Chiara e’ una donna molto intelligente e capace di comprendere in modo razionale l’origine del proprio problema, ma e’ incapace di sottrarsi al rigido controllo che la sua sfera cosciente ha edificato intorno alla possibilita’ che le proprie pulsioni emergano e trovino una via di realizzazione, che pure desidera fortemente. Inoltre , la consapevolezza di stare cosi’ distruggendo la propria vita , insieme a quella del proprio compagno e della propria bambina, la condanna ad ulteriori gravosissimi sensi di colpa.
 

La descrizione di questo caso e’ esplicativa del conflitto che sottosta al sintomo nevrotico, la cui comprensione non basta per il suo superamento se non e’ accompagnata dalla elaborazione dei contenuti affettivi che in esso sono rappresentati. L’analisi dei sogni, delle fantasie, e delle esperienze remote della propria vita trovano nel contesto psicoterapeutico un nuovo canovaccio entro cui puo’ nascere una identita’ piu’ libera, indebolendo la necessita’ di ricorrere alla  ossessiva  ripetizione dello stesso copione. E’ un lavoro lungo e faticoso, l’unico possibile per dare forma ad una dimensione piu’ adeguata e piu’ vicina al vero se’, entro cui il sintomo puo’ ridimensionarsi se non proprio sparire del tutto.

E’ il cammino che ha appena iniziato Chiara e che il seguente sogno sembra bene riassumere:

“Sono davanti al mare, calmo e chiaro. Accetto di scendere in acqua dietro l’invito di un giovane bello e bruno che non e’esattamente il mio ideale di uomo, ma che riconosco come molto attraente. La scala per scendere e’ piuttosto ripida e stretta, tuttavia la percorro e mi bagno. Ora sono sola e vedo un enorme scoglio da dovere superare, dietro il quale si apre una grande baia dorata.”

Forse Chiara, consentendosi di non censurare questo sogno, ha gia’ fatto un piccolo passo in direzione della sua parte piu’ profonda concedendosi ,  almeno in forma onirica, di contattare il suo desiderio.

 

 

 

 

 

martedì 7 ottobre 2014

Scarpe....che passione!

Oggetto di desiderio femminile e maschile, le scarpe sono tra i capi di abbigliamento  piu’ amati dalle donne. Una  passione che induce all’acquisto di scarpe anche se l’armadio ne e’ gia’ pieno, a rimanere incollate alle vetrine delle novita’, a “possedere” modelli che forse non si indosseranno mai. Le scarpe rappresentano infatti il mondo della seduttivita’ e dell’ erotismo, forse piu’ di un abito o di un indumento intimo e appartengono all’immaginario femminile e maschile con pari intensita’. Pensiamo alle immagini di donne nude su tacchi altissimi, o all’accoppiamento ormai classico tra le succinte guepiere nere e gli alti stivali dello scenario sadomaso. Sono rappresentazioni dell’erotismo collettivo cui fa riferimento il desiderio  di uomini e donne. Se consideriamo la scarpa dalla prospettiva delle donne, ci rendiamo conto che la scelta che facciamo va  ben oltre le componenti della moda o della eleganza o della praticita’.  Indossare un tipo di scarpa piuttosto che un'altra e’ connessa ad un preciso messaggio che ogni donna lancia all’universo circostante sulla propria identita’. Chi preferisce sempre  scarpe con il tacco e’ certamente molto diversa da chi predilige le scarpe basse e sportive, alludendo l’una all’atteggiamento sensuale e seduttivo per eccellenza, l’altra ad una maggiore liberta’ e determinazione. La scelta del tacco alto, soprattutto se sottile o a spillo, rimanda ad un modello femminile ancheggiante e morbido, cui si accoppia un genere di abbigliamento idoneo, generalmente gonna piu’ che pantalone, rivelando una natura piu’ tradizionalmente legata alla sensualita’. Chi al contrario predilige la scarpa bassa mostra una maggiore propensione per la praticita’ e forse una maggiore sicurezza in se’ stessa, come anche una sfida ai classici modelli femminili . E' il caso di chi sceglie in modo marcato  stivali anche molto pesanti, o anfibi , svelando una natura trasgressiva e anticonformista che si oppone alle regole e che deliberatamente rinuncia allo stile femminile propendendo per uno stile piu’ androgino anche se non per questo meno sensuale. Ma tra  scarpe alte e basse, tacco largo o tacco sottile, oggi piu’ che mai, la moda propone una infinita’ di modelli tra cui scegliere : zeppe, infradito, stiletti , stivali al ginocchio, scarpe gioiello, calzari, fogge tra loro diversissime  che rivelano lo stile e la personalita’ di chi le porta, il proprio modo di porsi, il proprio “personaggio”.

E i maschi, cosa adorano delle calzature femminili? Sappiamo che il piede e’ in ogni paese e in ogni cultura oggetto di desiderio  da parte del genere maschile che vede nella caviglia, nelle dita laccate, un richiamo erotico molto forte. Un piede calzato in modo appropriato seduce piu’ di una ampia scollatura. La scarpa pertanto si carica del significato sessuale che rimanda alla donna amata, divenendo il  suo sostituto, il feticcio da adorare. Nell’antica Cina il piede e’ stato oggetto di culto e di interesse molto piu’ che in occidente: la pratica della fasciatura del piede delle donne per impedirne la crescita  era connessa alla appartenenza sociale e al ruolo di soggezione cui una donna era culturalmente obbligata. Piedi grandi non soltanto erano considerati particolarmente sgraziati e poco seducenti , ma indicavano la provenienza da un basso ceto sociale . Anche  tra le donne berbere l’attenzione ai piedi adornati alle caviglie  da braccialetti e catenine dimostra come questa parte del corpo sia stata fin dall’antichita’ e in culture diverse oggetto di adorazione e di  particolare predilezione. D’altra parte anche la favola di Cenerentola con la sua famosa scarpina di cristallo riassume nell’immaginario collettivo la  valenza erotica e sociale di questo oggetto,  e il suo immutabile fascino. Non stupisce quindi che oggi sia considerata un accessorio indispensabile dell’eleganza e che ad essa si attribuisca un valore particolare per definire il proprio stile e la propria identita’. Pertanto siamo tutti un po’ feticisti se a questo termine attribuiamo il senso di una speciale passione verso questo oggetto nel quale le donne riflettono il proprio narcisistico ideale femminile, i maschi  vi riconoscono  l’immagine del proprio adorabile oggetto  d’amore.

 

giovedì 2 ottobre 2014

Il mito della bella famiglia felice


Mi imbatto spesso nel corso della mia pratica sulla esistenza di questo mito nella psiche collettiva della societa’occidentale. Quella che in quest’ultima  rappresenta una delle strutture istituzionalizzate  piu’ potenti per la sua stabilita’ e il suo ordine, produce all’interno della psiche individuale una immagine che ne accompagna lo sviluppo fondando una gestalt dalla quale e’ molto difficile prendere le distanze , anche quando apparentemente vi si distacca o vi si oppone.

Dunque la famiglia: Padre, Madre, Figlio. Una triade sulla cui base si reggono non solo rapporti affettivi e sociali, ma economici, patrimoniali, assicurativi, ereditari. In nome della perpetuazione della specie, ogni societa’ infatti elabora un sistema di norme per evitare il caos che regna serenamente nel mondo animale, evitandone le pericolose commistioni, e regolandone i rapporti nel modo piu’ preciso possibile. Ad ognuno inoltre e’ attribuito un compito preciso che diventa “ruolo” al quale uniformarsi e la cui bonta’ e’misurata attraverso un preciso sistema di valori  che ne decretano l’adeguatezza o, la contrario, la scelleratezza. Perche’ la famiglia cui ci ha educati la cultura cristiana e’ quella che molto spesso confligge con quella nella quale siamo nati, rendendo la sua realta’ concreta molto difficile e spesso inaccettabile, ma non per questo meno vera e infelicemente duratura.

Dice Sandro (i nomi sono immaginari) venuto a fare terapia di coppia insieme alla moglie Rina: questa non e’ la mia famiglia, alludendo alle difficolta’ nelle quali quotidianamente si imbatte soprattutto in relazione alle due figlie. E che dire di Eveline, una giovane meno che trentenne che viene in terapia per il fallimento della sua storia sentimentale con un uomo sposato che non riesce a lasciare la propria moglie: brutta copia della propria famiglia di origine che solo per gli altri risulta  unita e stabile, ma priva di  alcun rapporto tra i suoi componenti, silenziosamente separati nelle loro singole stanze , ossia  nelle loro quattro singole vite. Quale mortificazione rendersi conto che insieme non possiedono nemmeno una foto, nemmeno una lontana parvenza della finzione che da anni portano avanti.  Un altro esempio puo’ essere descritto dal caso di Marinetta, una donna attraente e intelligente, che a questo mito ha sacrificato la propria vita sentimentale, pur di sostenerla agli occhi dell’unico figlio e alla salvaguardia del suo patrimonio, relegando le proprie esperienze affettive nella clandestinita’ e nel buio. Questi pochi accenni ad alcune delle innumerevoli storie che ho seguito, ma anche di semplice conoscenza, spingono a porsi degli interrogativi e a formulare delle considerazioni.

Come afferma Tolstij nell’incipit di  Anna Karenina  tutte le famiglie felici sono simili tra loro; ogni famiglia è infelice a modo suo, gli esempi che ho citato dimostrano che mentre l’ideale della famiglia perfetta fa riferimento ad un’unica immagine presente nella coscienza collettiva,  la sua identita’ reale e’ invece   diversificata e contestualizzata, immersa in un intreccio complesso di emozioni, sentimenti, aspettative.  Evitare il conflitto pur di mantenere incontaminata l’immagine idealizzata  dei rapporti tra i membri di una famiglia, significa sostenere una finzione che a lungo andare  li depaupera della autenticita’ e della libera espressione dei sentimenti.

Il cinema contemporaneo, cosi come la letteratura,  ha da lungo tempo scelto come soggetto di rappresentazione la famiglia e le interazioni tra i suoi membri, soffermandosi  sull’utopia della famiglia ideale e concentrandosi sulle sue ipocrisie che , piu’ dei conflitti aperti , ne scompaginano la struttura silenziosamente ma non meno dannosamente. Dall’assenza ai tradimenti, dalla prevaricazione alla passivita’, dai silenzi alle manipolazioni,  le figure dello scenario familiare “recitano’ la propria parte nascondendo inconfessabili verita’ pur di mantenere inalterata la struttura   a se’ stessi e ancor di piu’ agli occhi degli altri.  Perche’, anche in epoca di grandi trasformazioni sociali come quella in cui viviamo, il modello familiare tradizionale sopravvive rigidamente come immago interiorizzata dei singoli individui,  un fantasma con cui confrontarsi continuamente , un riferimento insopprimibile nella propria evoluzione. Malgrado la pluralita’ culturale del mondo attuale, l’immigrazione, la diffusione di convivenze tra persone dello stesso sesso e il crescente numero di divorzi,  il concetto di famiglia rimane immaginativamente ancorato alla sua composizione originaria e ai ruoli primari a questa connessi.  L’interiorizzazione di questa struttura, nella sua forma buona sembra pertanto una gestalt che resiste ai cambiamenti sociali e culturali, alle trasformazioni del tempo, con una refrettarieta’  che mina la creativita’ di ogni nucleo familiare e la possibilita’ di elaborare le proprie tensioni  in termini positivi .
Al contrario, conflitti e contrapposizioni sono fonte di conoscenza e di scambio , di approfondimento e di individualizzazione delle tematiche familiari . Non e’ un caso che quando la finzione cade , e i conflitti negati o nascosti esplodono per cause impreviste , la violenza puo’ emergere in modo altamente pericoloso.

Il modello della famiglia perfetta o felice e’ pertanto un mito imperfetto che distorce la realta’ e non permette di affrontarla, logorando interiormente chi si illude di poterla raggiungere o chi si ritiene responsabile del suo fallimento. Una mia  paziente, di 76 anni, divorziata da 20 , pittrice affermata ed apprezzata, continua a rimproverarsi di avere tolto alle sue due figlie ormai quarantenni la famiglia e di avere dato a queste ultime una grande sofferenza conseguente alla propria scelta. La colpa di non aver saputo sostenere un matrimonio infelice grava ancora nella sua vita come nelle sue opere, dense di ombre scure  come i suoi rimorsi. Cito il caso di questa artista, laica, femminista, creativa, che malgrado il suo carattere determinato e libero , non e’ riuscita a sganciarsi dal sentimento di colpevolezza che la opprime da molti anni e a cancellare dalla propria anima l’immagine di una famiglia che avrebbe potuto essere felice se solo fosse stata capace di sacrificarsi. Per concludere, un cenno ai riti connessi al mito in questione. Alludo a quelli che sono i momenti rituali che ogni famiglia mette in atto per celebrare la “bontà' ” della sua esistenza. Le feste, i pranzi, i compleanni, e tutte quelle occasioni  in cui lo stare insieme presuppone legami affettivi, affinita’, autenticita’ dei sentimenti. Eppure sono questi i luoghi piu’ significativi della finzione cosi’ come le occasioni piu’ feroci del suo disvelamento. Laddove infatti la famiglia recita le sue bugie e reprime i suoi segreti, parafrasando il titolo di un vecchio film sull’argomento, i riti familiari divengono momenti di malessere e di disagio profondo per tutti i componenti , circostanze che da feste si trasformano spesso in tragedie. Da Festen ( 1998) a Le fate ignoranti (2001)  il cinema non smette di mettere in scena  le riunioni familiari attorno alla tavola imbandita : e’ proprio in quelle ri-unioni che la verita’ affiora senza discrezione, distruggendo definitivamente il mito della famiglia felice .

giovedì 18 settembre 2014

21 Settembre 2014 GIORNATA MONDIALE DELL'ALZHEIMER


 Brevi note sulla malattia

L’Alzheimer e’ una malattia in continua diffusione ,  che investe non solo chi ne viene colpito, ma l’intera  famiglia, in particolare chi gli sta piu’ vicino. La sua progressione, le manifestazioni, i sintomi, seppure analoghi e clinicamente riconoscibili, seguono tempi e strade individuali che e’ necessario comprendere e seguire fin dai primi esordi. La perdita della memoria, che ne rappresenta uno dei sintomi piu’ salienti, e’ accompagnato dalla graduale perdita di interesse, anche della propria persona, marcata  ostinazione, talora aggressivita’ e perdita di inibizioni,  modificando la personalita’ del soggetto, la sua vita, le sue relazioni. E’ molto importante individuare  questi cambiamenti fin dal loro primo apparire, anche se spesso vengono ignorati o sottovalutati e solo successivamente riconosciuti come  significativi segnali . Comportamenti e manifestazioni che creano disagio su chi  sta intorno, insieme a sentimenti di insofferenza e inadeguatezza che si aggravano con il progredire della malattia. L’ accettazione di questa “trasformazione” e’ per questo  molto problematica da ogni punto di vista, affettivo, pratico, relazionale, sia per il malato, che non ne ha piena consapevolezza, sia per il familiare, che rifiuta la situazione rendendo il proprio compito ancora piu’ difficile . Si tende infatti a spiegare all’ammalato le “ragioni” di alcune scelte che lo riguardano insistendo su argomentazioni e motivazioni che in realta’ non lo sfiorano o che sfuggono ai propri bisogni del momento ,  improntati su un aumento di egocentrismo, di dipendenza dagli altri, di tentativi di controllo spesso speculari alla sensazione di “perdita” di se’ stessi. Questi bisogni, che talora divengono “pretese” risultano molto disturbanti per l’ambiente che lo circonda. Andando avanti,  col ridursi dell’autonomia, questi aspetti regressivi diventano sempre piu’ rilevanti e l’ammalato non e’ piu’ in grado di restare da solo ne’ di badare a se’ stesso. E’ il momento in cui bisogna introdurre degli aiuti domestici, spesso rifiutati o non all’altezza del compito, oppure, nei casi piu’gravi, fare ricorso a delle strutture residenziali: scelta ritenuta affettivamente la peggiore.

Da questo breve quadro si evince non solo l’importanza di una diagnosi precoce nel tentativo di rallentare il piu’  possibile il processo di decadimento cognitivo e comportamentale dell ‘ammalato, ma anche fornire ai familiari, fin dalle prime fasi , un intervento di counselling psicologico individuale in modo da affrontare il percorso nel modo piu’ adeguato .

Successivamente anche i gruppi di auto aiuto possono offrire uno spazio di condivisione e di confronto utile a sostenere l’inevitabile stress e sofferenza che l’esperienza comporta. Esperienza che suscita reazioni emotive intense e contraddittorie, con sentimenti di colpa e di impotenza che contribuiscono a rendere piu’ faticoso l’impegno che essa richiede.

sabato 6 settembre 2014

Ancora sulla casa, simbolo della dimensione interiore della vita psichica

Ritornando sull'argomento del mio post precendente e in linea con la mia riflessione , mi piace riportare il mio commento al film del 2012 di Francois Ozon 

 
La relazione insegnante-allievo, così come quella terapeuta paziente è il luogo entro cui si attivano profonde i-stanze interne, esplicitando in essa segreti aspetti del sé, ombre tacitate che nella dimensione educativa o terapeutica trovano spazio, respiro, svelamento.

Entrare nella casa-psiche dell’Altro è un movimento di penetrazione incestuosa sostenuto dal desiderio di conoscenza e di esplorazione delle proprie capacità e dei propri confini. Nessuno dei due può esimersi da questa “necessità” di esplorazione che attraverso l’altro lo conduce dentro sé stesso, a volte rimanendone intrappolato, con-fuso, non riconoscendo più chi è l’uno e chi è l’altro. In questo gioco di specchi e di manipolazione reciproca, il film apre allo spettatore una visione sempre più prospettica delle profondità dell’anima, le sue contorsioni, il suo continuo slittare tra realtà e immaginazione. Ognuno si appropria  di una parte dell’altro, “realizzando” attraverso l’altro quello cui non ha  saputo dare forma , approfittando dell’ occasione che la situazione offre per recuperare tempi perduti, possibilità sprecate : come Germain, il professore del film di Ozon , scrittore mancato,  e Claude, il sedicenne allievo della sua classe, che si distingue dagli altri per la originalità di quello che scrive,  raccontando nei particolari l’amicizia con un altro studente, “dentro” la casa di quest’ultimo,  nella quale si insinua con morbosa curiosità. Nei suoi temi , il cui finale e' sempre un “continua” come i racconti delle sedute psicoanalitiche , il giovane trascina la curiosità del professore e della propria moglie,  ognuno riconoscendo in esso elementi della propria storia in un quadro dove la realtà sfuma nella immaginazione, attraendo l’uno e l’altro nella seducente complicità della storia stessa. E’ così che ognuno prende qualcosa dall’altro per scrivere la “propria” storia  spingendosi più in là dei limiti che il contesto scolastico richiede, alimentando sospetti e allusioni fino al finale dove ognuno sarà costretto a tornare nella realtà ordinaria, non senza nuove ferite e fallimenti.

Come in una seduta psicoanalitica, il rapporto tra allievo e maestro, tra narratore e ascoltatore,  tra regista e spettatore , diventa  un legame che, sollecitato dalle parole, trasforma la fantasia in realtà, i desideri in fatti, riconfermando che nella casa interna in cui abitiamo le immagini rappresentano la nostra verità. Bellissima la scena finale che chiude le porte sulla inafferrabilità di ciò che veramente accade dentro ogni casa  e sul rischio che , osservandola o ascoltandola,  ci si possa perdere.

 

 
 

 
 

giovedì 28 agosto 2014

La casa nel sogno


La casa e’ uno dei simboli piu’ frequenti nella vita onirica degli individui, in particolare delle donne. Pur essendo simbolicamente rappresentativo della personalita’ individuale, della struttura e del  mondo interiore , la casa, in quanto contenitore compare piu’ spesso nei sogni dei queste ultime, rimanendo il luogo privilegiato della loro ricerca e della loro identita’. Durante la mia attivita’ ho raccolto questa immagine nel percorso di molti individui -compresa me stessa- nel quale questo simbolo  era significativa espressione di quanto dimorava all’interno di quella persona. Casa come dimora psichica, luogo di esperienza interiore. Piani, stanze, corridoi , porte e finestre, raccontano cio’ che l’anima sta attraversando, la sua chiusura in se’ stessa, la sua apertura verso il mondo. Sotterranei e sgabuzzini, cosi’ come sale o camere da letto, vuote o arredate che siano, luminose o buie, sono l’immediata rappresentazione di cio’ che si sta vivendo in quel momento nella casa di psiche.  Ricordo ancora un mio sogno, fatto in un momento difficile della mia vita:
Ero io stessa una casa: ne vedevo la struttura interna divisa su tre piani, una sezione longitudinale dell’insieme. Tutto era del medesimo colore grigio, e pioveva in ogni parte allo stesso uniforme ritmo. A un tratto grido dicendo che in  quella casa stava morendo la bambina.
L’immagine onirica fu a quell’epoca talmente potente e profonda da indurmi alla piena consapevolezza della depressione che stavo vivendo, alla perdita della mia parte bambina, della mia capacita’ di provare gioia ed entusiamo per la vita. Ma il grido che nel sogno avevo lanciato produsse in me un risveglio , dandomi la giusta indicazione su come uscire da quella tristezza senza limiti nella quale mi trovavo.
Ho sempre ricordato quel sogno come una benedizione proveniente dal mio inconscio ed ancora oggi ne conservo la memoria.
Talora la casa torna nei sogni in modo ricorrente seguendo in modo preciso l’evoluzione di un percorso di individuazione. E’ il caso di una mia paziente con grosse difficolta’ relazionali. Durante il percorso analitico ha ripetutamente sognato di tornare nella casa della madre, trovandola talora conosciuta, talora estranea, ma sempre espressiva del suo processo di elaborazione della dinamica familiare e delle vicende affettive  vissute. Man mano che il  percorso ha lasciato alle spalle le vicende originarie, anche la casa del sogno si trasforma, divenendo finalmente la propria casa.
Ecco uno degli ultimi sogni:
Sono a casa mia.  Ci sono due stanze confinanti : tra loro non c’e’ comunicazione. In una ci sono io, nell’altra due bambini: un maschio e una femmina.
La paziente ha due figli, con i quali si ripropongono le stesse difficolta’ di relazione. Il sogno compare nel momento in cui sta revisionando i propri rapporti attuali, misurandosi con i propri complessi e con la chiusura emotiva nella quale ha cercato di rifugiarsi per evitare di soffrire.
Altre volte la casa compare come luogo estraneo e sconosciuto, spesso con scale e corridoi difficili da percorrere, oppure oscuri e minacciosi : in ogni caso essa rappresenta il proprio luogo interno la cui esplorazione e’ fonte di paure inconsce e del timore di perdere i propri punti di riferimento.
In altri sogni la casa appare “abitata” da piccoli animali ripugnanti come scarafaggi, topi o insetti, che impediscono al sognatore di vivere lo spazio in modo confortevole e che sono significativi di una dimensione interna inquietata da problematiche irrisolte. Come in uno dei sogni di un’altra mia paziente:
Sono a casa mia e sto riordinando. Vedo il tappeto che ho steso fuori ad asciugare dopo averlo lavato . In controluce vedo che dentro ci passeggiano dei topolini. Mi sveglio in preda al  ribrezzo.
La paziente in questione , gia’ da tempo in terapia, cerca di trovare una soluzione razionale alla propria vita e al proprio disagio esistenziale, ma non riesce ancora a risolvere i propri nodi profondi che sfuggono a qualsiasi ordine e continuano a disturbare il proprio equilibrio. Al tempo di questo sogno e’ piu’ consapevolmente orientata verso un cambiamento della propria dimensione interna, ma e’ sempre ostacolata dal timore di sbagliare, di non farcela e dalla ossessione della perfezione.
Ogni parte della casa rappresenta simbolicamente aspetti della psiche: se il salone  dove si ricevono gli ospiti indica la Persona e il suo modo di manifestarsi agli altri, lo sgabuzzino e’ metafora dell’Ombra, dove viene chiuso o rigettato quello che non si vuole vedere ne’ mostrare. Cosi’ il tetto, dimensione del pensiero e della razionalita’,  in ogni caso apertura verso l’Alto, si contrappone al pavimento, luogo della concretezza e della dimensione pratica della vita. Le stanze sono espressive delle diverse aree della vita : dai luoghi piu’ intimi e riservati come le camere da letto o il bagno, a quelli dove si elaborano gli elementi ( la cucina ad esempio, o gli studi).  Scale e corridoi rappresentano gli elementi di raccordo e comunicazione. In tutti i casi e’ importante analizzarne il contesto : una casa poggiata sulle palafitte dice cose diverse da una casa posta in pianura o in citta’. Di fronte al mare o tra le montagne. Nel bosco o in un deserto.
In ultimo, voglio raccontare il sogno di un mio giovane paziente (20 anni) che racconta  e riassume in modo molto particolare la sua  faticosa ricerca di identita’ e nel quale la casa si manifesta come luogo del ritorno o del ritrovamento, della sicurezza e del materno, con una rappresentazione dell’ aspetto maschile della coscienza  singolare e archetipica. Il sogno di un moderno Ulisse.
Sono in viaggio con mio padre e mio fratello. A un tratto abbandoniamo la macchina e continuiamo a piedi. Man mano ci allontaniamo  dalla città ed entriamo sempre di più in una zona isolata, come fosse una campagna con molta vegetazione. Andando avanti mi ritrovo  solo con la mia  bici lungo una strada che  non e’ più di asfalto. ma uno di quei sentieri di terra che si trovano nei boschi. Avanzando,  vedo una signora insieme alla  figlia ai bordi della strada, che mi guarda  fisso e io, vedendola, sento un forte presentimento di pericolo imminente per cui  vado avanti senza fermarmi, fino a raggiungere una specie di cancello semi aperto . Arrivato li,  non ho più la bicicletta e proseguo a piedi. Oltre questo cancello c' era un bosco vero e proprio, con alberi e senza nessuna strada. Mi sento smarrito, ma a un tratto vedo una casa in mezzo a questo bosco: una casa abbastanza grande e dall' aspetto quasi lussuoso.  Qui ricordo di aver incontrato un ragazzo ( piu’ o meno della mia eta’) che sta salendo su una macchina con solo due posti e molto bassa. , Inizialmente l’ho considerata come una fonte di salvezza per riuscire a tornare a casa, ma questo ragazzo mi  fa vedere un foglio che era il suo elettroencefalogramma (  alterato,  anche se non so su che base lo abbia pensato) e non vuole farmi salire in macchina con lui . Entrando in casa ( abbastanza spaziosa) ho trovato una specie di deltaplano, e  nuovamente riprendo la speranza di poter tornare a casa. Solo che non riuscivo ad usarlo, per quanti tentativi facessi.  A quel punto incontro  un signore ( che era il padre del ragazzo) che mi ha aiuta  a partire  con questo deltaplano in un modo strano che non ricordo e,  dopo avermi fatto promettere che sarei tornato a trovarlo qualche volta, sono riuscito a partire e a tornare a casa.
Una volta tornato, trovo la casa buia e scolorita (e molto disordinata) che  mi mette un senso di tristezza e vuoto. Dentro  c’e’ mia madre. Ho la sensazione di estraneità’.  vado nel balcone della mia stanza dove trovo una scatola di chiodi colorati e comincio a sbattere su questa scatola. Chiodi colorati continuano ad uscire dalla scatola.
Al di la’ dell’interpretazione complessa del sogno che sintetizza il percorso di individuazione di questo giovane nel difficile compito di recupero della propria identita’ maschile, e’ evidente come il simbolo della casa si manifesti come luogo significativo del proprio processo di crescita e maturazione, luogo di sicurezza e di nostalgia,  ma non come oggetto di identificazione, cosi’ come invece sembra essere nei sogni  prima riportati , nei quali la casa sembra  rappresentare essa stessa l’ identita’ femminile.
Su questo tema , che costituisce oggi per me fonte di interesse e riflessione , mi riservo di scrivere in un prossimo articolo . Per ora mi basta sottolineare l’importanza  e la significativita’ di questo simbolo, della sua comparsa nei percorsi individuativi e del prezioso contributo conoscitivo che questa immagine offre durante la psicoterapia.   

giovedì 15 maggio 2014

L’Io contemporaneo e la negazione


                                                       Questo giorno medesimo ti darà la vita e la morte

                                                                                                                            Tiresia

 

Partiamo da Freud: nel suo  modello  l’Io è la sede della vita cosciente, un centro di elaborazione tra le pulsioni più primitive derivanti dalla parte istintuale di ogni individuo e le richieste etiche e sociali provenienti dall’esterno ed interiorizzate nel Super Io. Nella teoria di Freud l’Io  è quindi un luogo di filtro tra ciò che è compatibile con la propria struttura e ciò che non lo è. Per mantenere stabile la costruzione del mondo che l’Io si dà nel suo processo di evoluzione è necessario un sistema di difesa in funzione del proprio mantenimento ed equilibrio. In tal senso agiscono i meccanismi di difesa che svolgono funzione adattativa tra interno ed esterno con la finalità di garantirne un  adattamento il più possibile soddisfacente. Tra i diversi meccanismi di cui l’Io si serve,   intendo occuparmi in questo scritto di quello della negazione o, come vedremo meglio, del diniego, che è senz’altro oggi il più diffuso sia a livello individuale che collettivo. Nell’uso freudiano si possono distinguere due diverse accezioni del termine negazione. La prima , verneinung, ha il significato di negazione in senso linguistico e letterale. La seconda, o Verleugnen , rimanda al rifiuto della percezione di un fatto che si impone nel mondo esterno assumendo il significato di diniego o di smentita. Ma il punto più significativo della tesi freudiana è la sua interrelazione con il rimosso, come emerge dalle seguenti affermazioni:

1) “La negazione è un modo di prendere conoscenza del rimosso”:

2) “Con l'aiuto della negazione viene annullata soltanto una conseguenza del processo di rimozione, quella per cui il contenuto della rappresentazione interessata non giunge alla coscienza. Ne risulta una sorta di accettazione intellettuale del rimosso, pur persistendo l'essenziale nella rimozione”;

3) “Mediante il simbolo della negazione il pensiero si affranca dai limiti della rimozione”.

Partendo da questa premessa , torno a riflettere sulla realtà contemporanea alle prese con la rimozione della morte e  con la negazione di tutto quello che la riporta alla coscienza.   

Un tempo la consapevolezza della morte e la ricerca della salvezza era affidata a rituali e sistemi religiosi, mentre oggi ci si affida al progresso scientifico e alla medicina. La massiccia delega agli ospedali, ai medici, alle terapie rende pertanto  molto difficile nella società  contemporanea restare in contatto con il morente o assistere con i propri occhi al trapasso, tanto che è molto più semplice rispetto al passato dimenticare che esiste un limite invalicabile per il quale il progresso è chiamato a dare una risposta, sempre e comunque. Il rifiuto della mortalità viene pertanto sostenuto con tutti gli strumenti  a disposizione (cure palliative, trattamenti inefficaci, interventi di tecnologia avanzata): metodi preziosi  per rimandare il più possibile l’evidenza di  questa realtà, alla quale oggi non ci si prepara ma, al contrario, ostinatamente si nega. Ci si comporta infatti come se non esistesse, come se nella visione contemporanea del controllo e dell’efficienza  essa non avesse un posto, ma fosse piuttosto respinta ai margini  della coscienza dove  la sua inevitabilità viene continuamente ricacciata indietro. Non stupisce pertanto che questo atteggiamento faccia sentire maggiormente le sue conseguenze in prossimità dell’esperienza diretta di una malattia o della perdita o della morte, quando cioè la sua realtà fino a quel momento tenuta lontana torna ad approssimarsi. E’ in questo momento che il diniego si fa più sconcertante ed ostinato, non concedendo all’individuo la possibilità di accostarsi all’esperienza con i mezzi più adatti. La paura del dolore, della separazione e della perdita è infatti nella nostra società evitata con ogni mezzo, spesso con l’accanimento che nell’aggettivo “terapeutico”  giustifica l’agire medico alle prese con situazioni difficili e con la propria altrettanta impreparazione ad affrontare la verità.
Ma non è solo la morte ad essere rinnegata nel mondo contemporaneo. Al contrario essa è felicemente accompagnata da un corteo di situazioni ad essa collegate che insieme si sostengono, contribuendo ad alimentare sistemi illusori , pratiche pseudo magiche, terapie delle più varie per esorcizzare la vecchiaia, la malattia, la sofferenza verso la quale l’industria del benessere  consolida il proprio potere con un numero sempre crescente di  proselitismo new age, religione laica socialmente approvata e abbondantemente in vendita in palestre e profumerie, studi medici come supermercati, mercati biologici e cantine.

Ma c’è un altro aspetto che si affaccia alla mia mente in questa riflessione, che  riguarda la negazione degli affetti e la rimozione delle vicissitudini emotive. In un epoca in cui il bisogno di controllo ha raggiunto il suo apice, la vita affettiva così instabile e imprevedibile è tenuta distante e vissuta come fonte di sofferenza dalla quale emanciparsi attraverso l’uso della razionalizzazione ad ogni costo. Ciò rende molto difficili le relazioni e i rapporti sentimentali che continuano a sottrarsi alle regole della ragione e al controllo dell’Io , provocando al contrario ansia e angoscia che molto spesso sfocia nel panico, oggi sempre più frequente soprattutto nei giovani.  Ne conseguono rapporti superficiali ai quali, alla grande maneggevolezza del sesso usa e getta, si accompagna una enorme paura dei sentimenti tenuti a bada dalle nuove forme di comunicazione ( sms e chat) costanti e continui in un eterno restare collegati,  ma che non reggono all’impatto dei conflitti, alla inafferrabilità delle emozioni , alla contraddittorietà delle pulsioni. Un popolo di smarriti, disorientati, impreparati di fronte alle delusioni e alla perdita, non abituati a pensare che la vita  è una continua sfida e un continuo rimettersi in gioco. Il risultato è anche qui la  diffusione della depressione , la ricerca di un rimedio facile ed immediato capace di risolvere i problemi e anestetizzare il dolore.

Per dirla con Jung, più il progresso tecnologico amplia le possibilità di sopravvivenza e più la stessa precipita nell’Ombra. Si moltiplica allora l’uso di psicofarmaci, rimedi alternativi e pratiche spiritualiste che sollevino dalla realtà della sofferenza e dalla perdita che, al di là della conclusione finale, si reitera simbolicamente nella vita di ogni giorno, nei rapporti umani, negli amori e nelle amicizie, così come nella inevitabile trasformazione che il tempo opera in ognuno di noi, nell’invecchiamento, nei fallimenti, insomma in tutte quelle situazioni in cui “il male” rivendica la sua presenza.

Sembra pertanto evidente che il ritrovamento del benessere nella modernità sia strettamente legata alla funzionalità del meccanismo di negazione , che continuando a respingere nell’inconscio la realtà del dolore e della morte, si protegge con ogni mezzo dalla necessità di affrontarla. In questo caso però il meccanismo difensivo risulta “disadattativo” di fronte alla realtà , rendendo più fragili e vulnerabili di fronte alle difficoltà della vita e,  in generale, meno capaci di sostenere gli invitabili momenti  di sofferenza che questa comporta.

Concludo con un passo di Emanuele Severino:

Si incomincia a prestare attenzione all’abissale impotenza della civiltà della potenza. Si incomincia a scoprire la malattia mortale. Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuole discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia? ( Essenza del nichilismo).

 

 

 

lunedì 17 marzo 2014

Lei, di Spike Jonze



 
Nell’epoca del post umano nella quale ci stiamo sempre  più inoltrando, l’intelligenza artificiale ha felicemente sostituito la nostra con i suoi limiti, rimpiazzandoci nelle nostre operazioni più complicate, nell’archiviazione di quanto abbiamo prodotto, nella sistemazione dei documenti, nel mantenimento della memoria e  nella possibilità di cercare le cose che più si adattino a noi, compagno o compagna compresi. Il computer è più che mai il nostro alter ego, la nostra coscienza, lo specchio entro il quale proiettare la nostra identità e i nostri più intimi desideri. A un certo punto il “sistema operativo” sarà in grado di fare per noi non solo ciò che gli chiediamo, ma anche ciò che esso intuisce sia importante per noi e per il nostro bene. In questa dimensione anche la vita emotiva, gli affetti, i sentimenti subiranno una mutazione e la nostra anima sarà consegnata nelle mani ( si fa per dire) del sistema , nella sua realtà che, più che virtuale, sarà umana , troppo umana. Del resto il protagonista del film che scrive lettere d’amore per conto di altri ha messo in rete molte informazioni su di sé , lasciando molte tracce facilmente “elaborabili” da questa intelligenza superiore e quindi perfettamente in grado di rispondere ai suoi desideri nel modo più opportuno. Basta chiedere e il sistema risponde, confezionando la donna dei propri sogni, la compagna ideale. Se poi l’o.s. ha la voce sensuale e accattivante  di Scarlett   Johansson  è facile immaginare quali emozioni può suscitare, investendo su quella presenza incorporea, ma non meno reale di tutto ciò che ci circonda, l’infinita gamma di sentimenti, di attese, di paure che ogni relazione produce. Cosa può esserci di più disperante se  questa presenza improvvisamente scompare?  E’ la scena più paradossale e inquietante del film , quella nella  quale tutti ci riconosciamo, sentendo il dolore per la mancanza e per la perdita, dimenticando chi o cosa l’ha suscitata, perché quello che ha provocato,  innalzato, avvilito, sublimato,  è , in ogni caso, il vero noi stessi.
L'originale opera di Spike Jonze  ci induce a riflettere sulla realtà attuale, sulla solitudine e sulla difficoltà delle relazioni, mettendoci a confronto con i sentimenti e le emozioni della nostra esistenza che, tuttavia,  nemmeno la tecnologia  può mutare ma, al limite , imitare.
 


venerdì 14 marzo 2014

Arte come terapia. Terapia come arte

 
 

                                                        

                                       








            "Nelle immagini la psiche                                       
 rivela la sua potenza e la sua forza"
                                                                             
                                      J. Hillman


Riprendendo questo concetto,  il laboratorio che proponiamo intende lavorare con le immagini prescelte per alimentare in gruppo la suggestione e l'elaborazione delle reazioni soggettive di fronte alla visione di alcune opere d'arte. L' impatto psicologico ed emotivo suscitato dalla visione ed opportunamente guidato, può fornire elementi importanti su alcuni aspetti della propria personalità e per una maggiore conoscenza di sé. Il gruppo diviene contenitore prezioso per lo scambio e la riflessione  sui contenuti che emergono, facendosi in tal senso luogo di profonda esperienza estetica e terapeutica.
Il laboratorio è aperto a tutti coloro che vogliono utilizzare l'arte come strumento di  riflessione ed approfondimento delle tematiche personali connesse allo stimolo.
Sono previsti quattro incontri di circa tre ore ciascuno, ogni venerdì a partire dal 9 Maggio alle ore 18 presso l' Herborarium Museum, Via Crociferi 16, Catania.
Il numero di partecipanti previsto è di 10/15.
Il gruppo seguirà un percorso per il quale è consigliabile la presenza a tutti e quattro gli incontri.
Il costo è di 20 euro ad incontro.
Per prenotare: dirosa.lilia@tiscali.it oppure al 347 0022382