lunedì 9 dicembre 2013

Riflessioni sparse sulla genitorialità


Avendo dedicato tre incontri sul tema della genitorialità nei venerdì del Caffè psicologico dell’Associazione Contanimare, era pressoché inevitabile una riflessione personale sull’argomento saltando qua e là sulle tante cose che si sono dette.

Ecco il mio  tentativo di sintesi.

La genitorialità è un insieme di funzioni complesse che si intrecciano tra piano biologico, psichico, sociale, antropologico e che sono costantemente in rapporto con i tempi, la cultura, la storia. Nel suo aspetto più semplice essa coincide con la capacità riproduttiva che è propria dell’essere vivente. Nel suo aspetto più complesso ha a che fare con l’etica, con la spiritualità, con la religione: Super Io per la psicoanalisi, Dio per la religione, Governatore per la società. Se madre ha a che fare con la funzione nutritiva, consolatoria, protettiva e quindi con l’ambiente, la terra, la natura,  padre rappresenta la Legge, i principi, i limiti: entrambi i ruoli, o aspetti, sono in relazione con il bambino, o con il primitivo o con l’Es che è in noi  negli stadi evolutivi individuali e collettivi che connotano la storia dell’uomo. Parlare di genitorialità, pertanto, chiama in causa molteplici piani di riflessione e di analisi che vanno molto al di là della visione legata alla esperienza personale della nostra nascita e della nostra storia familiare. Inoltre, poiché l’evoluzione comporta una sempre maggiore indipendenza dal piano biologico (controllo del concepimento, inseminazioni artificiali, uteri in affitto, adozioni, ecc.) la genitorialità riguarda in maggior misura il piano culturale rispetto a quello naturale. Nel mondo contemporaneo la funzione genitoriale  risulta sempre più svincolata dal piano biologico del concepire e dare alla luce,  connettendosi con l’assunzione di  responsabilità rispetto al figlio - naturale o adottivo che sia - verso il quale si riconosce di avere dei compiti e dei doveri precisi sia in relazione ai bisogni primari ( nutrimento, accadimento, protezione) sia in relazione alla sua educazione e alla sua crescita. Fondamento della funzione genitoriale è quindi sia l’aspetto relazionale cui è intrinsecamente legata, sia la scelta cosciente del proprio compito rispetto a qualcuno che da questo dipende per la sua incolumità, crescita, sviluppo. In senso intrapsichico  questi termini rappresentano la dinamica affettiva entro cui si svolge lo sviluppo dell’individuo.

I principali aspetti di questa funzione sono: nutritiva, protettiva, affettiva, normativa, regolativa, predittiva.  Alcune di esse appartengono alla modalità materna, altre alla modalità paterna. Entrambe  sono determinate dalla storia, dal carattere, dalla struttura sociale entro cui sono immerse , pur rimanendo identiche nel costrutto di fondo.  In quanto archetipi  sono presenti sia sul piano personale che transpersonale e collettivo, e non sono rappresentati solo da padre e madre reali , ma da tutti quegli aspetti simbolici con cui entriamo in contatto durante il corso della nostra vita.  Se al materno appartiene fondamentalmente la capacità di “cura” e di contenimento, a quello paterno fa capo l’educazione e il rispetto dei limiti: entrambe le funzioni si associano a mille altre potenzialità complementari ed opposte. Sono compiti che ogni coppia deve assolvere nei confronti del proprio figlio, che sia  coppia tradizionale o  coppia omosessuale o  genitore singolo. Nello sviluppo dell’individuo tali funzioni vengono interiorizzate e mantenute dentro di sé come aspetti della personalità adulta , come capacità di auto realizzarsi in modo autonomo e indipendente. Dallo stadio di fusionalità  proprio della condizione prenatale nell’utero materno ( uroboros) e di totale identità con la madre,  lo sviluppo di ogni uomo ha a che fare con l’acquisizione del limite, della tolleranza al dolore, del riconoscimento della separazione dall’Altro e alla sempre maggiore differenziazione del sé dal mondo esterno. A questo contribuisce in misura rilevante il ruolo paterno. Pertanto le figure genitoriali divengono immagini interne sulle quali vengono proiettate esperienze reali o immaginarie derivanti dal rapporto che si è avuto con i genitori reali e che fondano nel corso della vita le successive relazioni con gli altri.

Se ci riferiamo ai genitori in senso stretto, ossia ai ruoli di padre e madre all’interno della famiglia,  dobbiamo osservare quanto questi siano connessi all’età, alla personalità, allo status dei soggetti in questione da un lato, dall’altro alla evoluzione dei costumi e dei modelli societari che hanno sensibilmente modificato la configurazione tradizionale della coppia genitoriale.  Garantire e favorire la complementarietà relazionale secondo una divisione dei compiti ben definita è oggi molto più complessa non solo per l’emancipazione femminile e la sua doppia identità ( madre-lavoratice), ma per le nuove tipologie familiari come quelle già menzionate.

E’ a motivo  della crescente complessità della famiglia e delle sue nuove configurazioni, che da qualche anno si sono moltiplicati gli incontri, i convegni, le relazioni di aiuto dedicati a questo tema e alla difficoltà sempre crescente dei genitori nel portare avanti i propri compiti educativi soprattutto in momenti difficili come la pubertà o l’adolescenza, e di fronte ai grandi cambiamenti della società tecnologica , della libertà sessuale, della diffusione di comportamenti dannosi ecc.

Se in precedenza la famiglia era un contenitore più stabile di fronte alle fasi critiche della vita, oggi la crisi generale che essa vive nella così detta società liquida ( Bauman), rende più variabile e meno differenziata la sua funzione sia in relazione alla necessaria complementarietà dei ruoli, sia in relazione alla sua stessa sopravvivenza. Si parla di una vera “emergenza educativa” che spinge a trovare soluzioni nuove e più adeguate di fronte alle sfide della modernità. Inoltre, la diffusione delle scienze psicologiche, della psicoanalisi e della psicologia dell’età evolutiva hanno portato ad una sempre maggiore attenzione ai fattori educativi, rispetto ai quali cresce la sensazione di inadeguatezza, l’ansia di non farcela, contribuendo a generare un’idea di perfezione quanto mai lontana dalla realtà. Come dice Bruno Bettelheim nel suo  “Un genitore quasi perfetto” non esistono manuali per diventare buoni genitori, ma è un cammino che si compie insieme fin dalla nascita sulla base dell’ascolto e dell’empatia, evitando di proiettare sul figlio parti mancanti di noi, o aspetti non realizzati,  aiutando quest’ultimo  a sviluppare le proprie capacità individuali, nel rispetto delle proprie doti e capacità , e cercando di conoscere chi è il nuovo uomo cui abbiamo dato vita.

E’ indispensabile a questo punto riflettere sul cambiamento cui oggi si assiste rispetto ad una generale omogeneizzazione dell’educazione, sempre meno differenziata nei ruoli tradizionali, ma direi più improntata su valori femminili di accondiscendenza, affettività , emotività a discapito della dimensione più maschile della autorevolezza. Da anni ormai si parla dell’assenza del padre nell’attuale società, visibile anche in talune professioni ( insegnanti, psicologi, pedagogisti) sempre più distanti dai compiti educativi di impronta paterna, e sempre più vicini alla dimensione materna. A questa assenza corrisponde , a mio parere, una eccessiva invasione di campo da parte  delle madri che,  accanto agli aspetti che le sono propri,  si è fatta carico  anche degli altri,  divenendo  genitore duplice,  spesso svalutando agli occhi dei figli la figura del padre, divenendo sempre più  presenti, controllanti, totipotenti . A tale proposito, osservando ciò che accade tra le giovani coppie, ma anche e soprattutto nel mio studio professionale, ho scritto qualche tempo fa un breve articolo su un nuovo profilo della figura del padre che oggi mi sembra emergere  e che ho definito “Il padre lussurioso” e che non dista molto da figure ben conosciute nel nostro mondo politico.  Ecco come posso descriverlo: un papi amorevole, più amico che educatore, dispensatore di piaceri economici, e che spinge al potere e al successo più che al rispetto dei valori e al senso di responsabilità.  Compiacente, complice,  incarna il modello dell’uomo vincente, di successo, da imitare più per quello che fa, e che ha,  che per quello che è. 

Del resto, per alimentare i nuovi modelli di riferimento  non è possibile dimenticare l’ enorme influenza dei media e  della  tecnologia che ha potentemente amplificato tutte le relazioni interpersonali, mettendo al centro il mondo, e spostando il nucleo fondamentale della comunicazione e del confronto dalla dimensione familiare e dalle agenzie educative tradizionali  alla comunicazione senza limiti della rete e delle sue modalità interattive.  Chat ,  social network , forum,   ecc. sono oggi il luogo più frequentato delle interazioni sociali, dell’informazione , dell’educazione e della cultura. Se questo  in precedenza era demandato alla famiglia e ai gruppi sociali primari, dove il modello di identificazione era contenuto e scelto tra i membri della famiglia (poteva essere il genitore, ma anche uno zio o un fratello)  o della scuola, oggi si misura  con i  diversi modelli proposti e resi accessibili  dalla rete.

Senza volere in questa sede approfondire la problematica inerente internet e la sua influenza , così come altre situazioni legate alla realtà tecnologica,  non è possibile riflettere sui diversi aspetti della attuale problematica genitoriale senza contestualizzarla nella dimensione culturale e sociale dell’oggi. Molte sono le prospettive da cui osservarla, molti i paradigmi interpretativi.

Rimane aperto la vecchia domanda circa l’ influenza dell’educazione e la responsabilità dei genitori sulla formazione del carattere e lo sviluppo della personalità: quanto sia a questa attribuibile e quanto al “daimon” personale di cui ogni individuo è portatore (Hillman) . Certamente i  fattori che partecipano all’educazione e alla crescita  di un giovane sono tanti e complessi , ed è semplicistico continuare a leggerli secondo costrutti  oggi non più adeguati ai cambiamenti epocali della famiglia e della società attuale. Così come è ancora prematuro affermare se i modelli teorici di ordine psicologico siano ancora esplicativi della dinamica affettiva: mi riferisco all’edipo freudiano, allo sviluppo del maschile e del femminile nel modello junghiano , al mito del seno materno e all’importanza dei primi mesi di vita nella psicologia kleiniana e in generale alla lettura del rapporto genitori figli che nell’ultimo secolo ha inondato le pagine della letteratura psicologica.  Lasciando da parte un atteggiamento pregiudiziale, e facendo riferimento anche a dati provenienti da realtà più aperte della nostra , è possibile affermare che al di là della coppia tradizionale , se vengono assolte  le funzioni genitoriali in modo che , al di là di chi le eserciti, siano assicurate  le risposte di cui ogni figlio ha bisogno, dalla cura alla autorevolezza,  non si evidenziano particolare problemi nella crescita e nello sviluppo di quest’ ultimo. E’ evidente che  modificandosi le relazioni e le configurazioni genitoriali sia necessario un adeguamento dei piani di lettura  di questi cambiamenti, andando oltre gli schemi tradizionali finora utilizzati , così come è necessario trovare soluzioni più adeguate a questi  nuovi profili  dal punto di vista  giuridico e normativo .

Per concludere questi cenni ad una problematica vastissima che interessa , come ho cercato di sintetizzare,  molti ambiti e prospettive , direi che è necessario l’abbandono di idealizzazioni teoriche che riguardano la famiglia del passato e aprire lo sguardo sulle nuove realtà senza pregiudizi e moralismi, nella convinzione che i tempi esigono trasformazioni e che il nuovo non è né peggiore né migliore del vecchio, ma inevitabilmente diverso.

 Letture consigliate:

Un genitore quasi perfetto, B. Bettelheim   Ed. Feltrinelli

"La superstizione parentale"  da “Il codice dell’anima” , J.Hillman Biblioteca Adelphi

La vita liquida, Bauman  Ed. Laterza

Il gesto di Ettore,  L.Zoja Bollati Boringhieri

Avere o essere, E. Fromm  , Oscar Mondadori

mercoledì 4 dicembre 2013

Sex addiction



La sex addiction, o sesso compulsivo, è una  dipendenza che comporta per chi ne è affetto gravi rischi connessi alla salute fisica, psicologica e sociale. Chi la vive è ossessionato dalla sessualità come ricerca costante di un nuovo patner,  come luogo di soddisfazione immediata e compulsiva, come scarica di una tensione emotiva altrimenti insopportabile. Collegato alla ricerca spasmodica di situazioni reali, il soggetto è continuamente occupato dal pensiero ossessivo del sesso, da fantasie di ogni genere, da frequenti masturbazioni e utilizzo di materiale pornografico . L’ossessività di questa ricerca è caratterizzata da un grande impoverimento della vita affettiva e di relazione, dalla incapacità di mantenere un legame sentimentale, dalla chiusura in un isolamento che gradualmente allontana il soggetto da una normale vita sociale. La dipendenza dal sesso è una delle possibili forme in cui si esprime il disturbo ossessivo compulsivo, ma la sua peculiarità implica in misura maggiore il deterioramento delle relazioni in quanto l’altro viene continuamente riportato ad un immaginario perverso ed osceno o, al contrario, escluso  nella totale indifferenza. Nel film di Mc Queen “Shame” del 2011 (di cui consiglio la visione) il protagonista bene incarna la dimensione emotivamente fredda di chi vive questa ossessione , la chiusura e l’inaccessibilità allo scambio e alla intimità dell’Anima,  lo spazio mentale costantemente occupato dalla presenza reale o immaginaria  di amplessi bulimici ma  emotivamente vuoti ed anonimi. E’ un impulso che, come tutte le dipendenze,  genera disperazione e disistima profonda insieme alla difficoltà di uscirne e di sanare l’ angoscia che condanna l’individuo  a reiterare il proprio comportamento. Come Brandon nel film citato,  non la libertà del desiderio, ma la prigionia da un impulso insopprimibile riduce la vita a mera scarica di un’ansia insostenibile, all’illusorio riempimento di una mancanza incolmabile. Le cause sono spesso da ricercare nei rapporti familiari originari , con figure genitoriali, fredde, anaffettive, e rigide nel comportamento, poco disponibili alla espressione delle emozioni, e senza alcuna educazione al sentimento.
Il disturbo viene normalmente affrontato con una psicoterapia individuale o di gruppo cercando di aiutare il soggetto ad una nuova percezione del proprio bisogno compulsivo e a riportarlo al desiderio di un incontro sano con la sessualità e con l’altro.
 


martedì 26 novembre 2013

Trauma e DPTS


Letteralmente trauma significa “taglio, ferita” , qualcosa che interrompe gravemente e bruscamente la linearità degli eventi o, riferito al corpo, l’integrità fisica. Il trauma è un evento dai mille volti e dalle infinite intensità. Esso provoca una “rottura” dell’equilibrio preesistente , provocando dolore fisico e psichico. L’evento traumatico colpisce l’Io direttamente o indirettamente, ma in entrambi i casi comporta la perdita di qualcosa o qualcuno, la distruzione dell’omeostasi interna provocando una reazione che è sempre soggettiva, incomunicabile, per sua natura “intransitabile”. Le sue conseguenze immediate  sono : la sensazione di una frantumazione interiore, il senso di vulnerabilità e di impotenza assoluta, la percezione della intollerabilità.  Gradualmente si manifesta  rifiuto,  negazione, perdita dei punti di riferimento , rabbia. In relazione alla gravità del trauma  queste reazioni possono essere elaborate e ricondotte alla coscienza che le assimila e le integra nella propria esperienza di vita o, al contrario,  rimanere scisse e talora inaccessibili alla memoria, disorganizzando la coesione interna e l’integrità psichica della persona.  In altri i casi la continua rivisitazione dell’evento traumatico determina uno stato di allarme continuo, provocando paure e sintomi come ansia, angoscia, insonnia e incapacità di portare avanti la propria vita anche dopo molto tempo dall’accaduto. E’  il caso del DPTS (disturbo post-traumatico da stress).

Nella definizione che ne dà il DSM IV il disturbo post traumatico da stress è caratterizzato dalla frequente intrusione del ricordo dell’evento, risvegli notturni, incubi, irritabilità,  tendenza all’evitamento di tutto ciò che vi è associato. Spesso si ricorre all’uso di alcol, droghe, psicofarmaci, nel tentativo di alleviare lo stato di grave tensione che viene vissuta. Psicologicamente l’esperienza traumatica è sempre soggettivamente devastante al di là dell’oggettiva  gravità del fatto, soprattutto per quegli individui che non hanno una struttura dell’Io ben organizzata o che già da bambini sono stati  esposti a situazioni dolorose  e , in conseguenza, particolarmente vulnerabili. Quando si parla di trauma si pensa a eventi estremi come incidenti, calamità, catastrofi, lutti inattesi, violenze. In realtà ogni evento che l’individuo subisce  e dal quale deriva un danno alla persona , alla sua vita, al suo equilibrio può essere vissuto come evento traumatico. Più che l’evento in sé, infatti, esso deve essere considerato in relazione all’individuo e alla particolare gravità che lo stesso rappresenta per lui, per la minaccia che esso costituisce rispetto alla sua incolumità fisica e psichica, alla propria identità , alla propria auto percezione. Esso ha che fare con la capacità di sostenerlo, di reagire , di fronteggiarlo : la cosidetta resilienza .

Un trauma, benché superato, segna a vita la persona che lo ha sperimentato: diventa segno dell’anima, cicatrice del corpo, ferita della memoria.

martedì 29 ottobre 2013

Il rapporto mente-corpo in una visione psicosomatica


Dall’antico  mens sana in corpore sano il rapporto mente corpo è stato indagato in modo diverso nel corso dei secoli, ma sempre occupando un posto di rilievo tra filosofia , medicina e psicologia. Occuparsi dell’uno non può prescindere dall’altro, considerato che il corpo è vivo proprio  in virtù dell’ essere abitato da una mente o meglio  da  una psiche o anima, spirito, sostanza sottile e immateriale densa di energia, forza, vitalità. Il termine psiche coincide infatti con il principio primo  della filosofia della natura:  il soffio vitale ,  senza il quale la materia è  sostanza inerte e priva di vita. Da questo inizio semplicistico ed elementare , ma non privo di valore e di importanza,  la storia della filosofia  ha sempre ruotato intorno alla correlazione tra la mente e il corpo nel tentativo di risolvere i numerosi interrogativi che questa pone,  muovendosi attorno a due filoni fondamentali: il monismo e i dualismo. Il primo cerca di risolvere il problema affermando che la mente e il corpo sono aspetti differenti di un’unica realtà; il secondo invece, si fonda sulla loro sostanziale diversità,   trattandoli pertanto separatamente. Senza volere riprendere il percorso tortuoso che il pensiero filosofico ha percorso su questo tema, è utile considerare quanto lo stesso abbia influenzato lo sviluppo della medicina scientifica soprattutto nella sua derivazione cartesiana, dualistica e scissa,  sempre più allontanandosi da quel tentativo di integrazione che la filosofia greca aveva cercato di compiere attorno al concetto di equilibrio ed armonia. Di questa concezione fondata sull’integrazione e sull’armonia delle parti  qualcosa ancora sopravvive nella attuale visione olistica di alcune teorie psicosomatiche , anche se il termine stesso psicosomatica induce ancora a mantenere intatta la dicotomia  tra la psiche e il soma e, in conseguenza,  a riproporre la domanda del come possa avvenire  quel misterioso salto dalla mente al corpo. Se pensiamo invece che la nostra unità fondamentale non è la somma delle parti ( organi, sintomi, idee, comportamenti ecc.) ma l’integrazione complessa  di tutto quello che noi siamo, sentiamo, pensiamo, soffriamo, senza distinzione tra ciò che avviene sul piano mentale e quello corporeo, potremmo riuscire a vedere in ogni manifestazione del nostro essere  un modo per esprimerci.
In questa prospettiva anche le nostre malattie non sono più  espressione  di un organo malato,  ma la manifestazione di un disagio esistenziale che attraverso quell’organo simbolicamente si esprime.
Il superamento della visione frammentaria e dicotomica comporta pertanto una revisione totale della medicina intesa come arte che cura non una parte del nostro corpo o di un suo  sistema -cardiovascolare, respiratorio, osteoarticolare, ecc. ma di un insieme unitario abitato da una vis e un dinamismo che attraverso la malattia  segnala uno squilibrio o una frattura o un’interruzione della propria energia vitale , la cui origine può essere rintracciabile sia sul piano corporeo che su sul piano mentale.
Nella mia  esperienza ospedaliera , durante la quale mi sono occupata di malattie diverse, di traumi, di fratture, infezioni ecc. non ho mai tenuto distinte le due sfere per la semplice ragione che la sofferenza che mi si palesava davanti era sempre il risultato di un insulto all’individuo nella sua totalità, quale che fosse la causa da cui nasceva. In questo senso la mia visione della salute e della malattia fa capo al concetto di un Sé psicosomatico entro cui si compendia la storia di quel singolo uomo, unico e indivisibile, della sua storia e della sua esperienza. La malattia esprime con linguaggio analogico e metaforico ciò che l’individuo nel profondo sta vivendo , spesso al di fuori della propria coscienza , anzi proprio per questo “somatizzato”:  unico modo per rappresentarlo a sé stesso e agli altri.
Il corpo – dice Merleau Ponty – è eminentemente uno spazio espressivo.”
Da questa affermazione nasce il principio fondamentale del discorso psicosomatico secondo il quale noi non abbiamo un corpo, ma siamo il nostro corpo. Ancora Merleau Ponty riassume il corpo come “questo strano oggetto che utilizza le sue proprie parti come simboli generali del mondo e per il quale noi possiamo  frequentare questo mondo, comprenderlo e trovarvi un significato.”
In questa prospettiva la relazione mente-corpo non è più vista in una dimensione di causa-effetto, ma di sincronicità, ossia una relazione a-casuale tra piani di realtà diversi  connessi da un  significato simbolico.   La malattia rivela quindi all’individuo,   in  quel dato momento della sua vita,  ciò che la coscienza non è riuscita ad assimilare o ha rifiutato, proiettando sul piano somatico problematiche inconsce o irrisolte che finalmente può elaborare ed  integrare.
Sono molti i modelli psicosomatici cui attualmente ci si riferisce, ma il termine è ancora utilizzato in modo improprio, spesso per banalizzare il disagio in questione o per sostenere affermazioni generiche e prive di  adeguato significato: mi riferisco alle supposte somatizzazioni di ansie, stress e simili di cui si fa abuso negli studi medici, ma che nulla dicono della individualità del soggetto cui si rivolgono.  In realtà non esiste una malattia psicosomatica come tale , perché tutte le malattie lo sono, senza distinzione di acuta  o cronica,  nella misura in cui consideriamo l’individuo nella sua interezza psicofisica dove  tutte le funzioni sono armonicamente correlate, compresa la psiche e le sue rappresentazioni.

 
Bibliografia:
AAVV "Verso la concezione di un sé psicosomatico" Edizioni Cortina Milano
Merleau Ponty "Il visibile e l'invisibile" Bonpiani editore 
F. Deutsch "Il misterioso salto dalla mente al corpo" Martinelli editore

venerdì 27 settembre 2013

La personalità borderline


Ecco la descrizione che ne dà wikipedia:

 “ Il disturbo borderline di personalità è caratterizzato da vissuto emozionale eccessivo e variabile, e da instabilità riguardante l’identità dell’individuo. Uno dei sintomi più tipici di questo disturbo è la paura dell’abbandono. I soggetti borderline tendono a soffrire di crolli della fiducia in sé stessi e dell’umore, ed allora a cadere in comportamenti autodistruttivi e distruttivi delle loro relazioni interpersonali.

Alcuni soggetti possono soffrire di momenti depressivi acuti anche estremamente brevi, ad esempio pochissime ore, ed alternare comportamenti normali. Si osserva talvolta in questi pazienti la tendenza all'oscillazione del giudizio tra polarità opposte, un pensiero cioè in "bianco o nero"….La caratteristica dei pazienti con disturbo borderline è, inoltre, una generale instabilità esistenziale.”


Secondo il DSM-IV, cinque e più delle caratteristiche sottoriportate bastano per poterne fare diagnosi:


  1. sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono;

  2. un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione;

  3. alterazione dell’identità: immagine di sé e percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili;

  4. impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto (quali spendere oltre misura, sessualità promiscua, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate etc.);

  5. ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari o comportamento automutilante;

  6. instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore (es. episodica intensa disforia o irritabilità e ansia, che di solito durano poche ore e, soltanto più raramente più di pochi giorni);

  7. sentimenti cronici di vuoto;

  8. rabbia immotivata ed intensa o difficoltà a controllare la rabbia (es. frequenti accessi di ira o rabbia costante, ricorrenti scontri fisici etc.);

  9. ideazione paranoide  o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress

Rifacendomi alla breve sintesi sopra riportata , vorrei presentarvi la storia di una mia giovane paziente che in qualche modo ne riassume le caratteristiche e che, malgrado non si possa dire di avere raggiunto una conclusione,  contiene tuttavia molti elementi di evoluzione e di elaborazione positiva.

Aggiungo che la paziente in questione non si è mai sottoposta a trattamenti farmacologici e che la psicoterapia è stata, e continua ad essere,  l’unica forma di “cura” per sostenere la propria difficoltà esistenziale.
 

La storia di R.
 Quando vedo R. per la prima volta, in ospedale,  ha circa 24 anni. Esile, ossatura sottile e fragile, capelli e occhi castani scuri: mi colpisce il tono della voce, squillante, potente, vivace , e i suoi modi fin troppo educati.  Mi viene mandata da un suo amico la cui madre avevo avuto in terapia. Mi racconta di avere i genitori separati da quando lei aveva 13 anni e di vivere adesso con la madre , impiegata, e il fratello più  piccolo. Mi fa subito il ritratto della madre: una donna debole, pronta alle lacrime, passiva . Un ritratto al quale non vuole assolutamente somigliare. Il padre, infermiere, è descritto come un uomo violento che afferma di odiare. Del fratello si limita a dire che è il bamboccio della madre. Vivono in una casa acquistata  dal padre dopo la separazione in seguito alla vendita di quella dove vivevano tutti insieme. In realtà R. non ha mai lasciato quella casa che descrive come bella e luminosa, al contrario di quella attuale che ritiene povera, brutta e impresentabile. Non invita mai i suoi amici a trovarla perchè se ne vergogna profondamente, soprattutto per il quartiere popolare in cui è situata. Per evitare che gli amici vedano dove abita, si fa venire a prendere o a lasciare a qualche isolato di distanza, soprattutto se si tratta di ragazzi. Questo il quadro della sua situazione familiare alla quale non piace appartenere e dalla quale vorrebbe andare via al più presto.
R. studia lingue, il suo sogno è andare in America, a New York precisamente, la sua passione la vita libera, ma con un certa sicurezza economica. All’epoca ha un ragazzo cui vuole molto bene, ma che non la soddisfa, né caratterialmente né sessualmente, ma che costituisce per lei un fondamentale punto di riferimento.
Mi espone subito il motivo della sua richiesta di terapia: la sua testa buchi, buchi, le chiazze prive di capelli che lei stessa si procura. Tricotillomania è la diagnosi che mi porta. Mania di cui è afflitta già da molti anni: più o meno dopo la separazione dei suoi. Risale a quel periodo l’inizio di una vita ribelle e turbolenta, vicina alle droghe, alle esperienze sessuali facili, a diversi tipi di incidenti dovuti a distrazione, abuso di alcol, comportamenti impulsivi e strafottenti. In questo stesso periodo e all’interno di questo contesto  si manifesta il suo rituale autodistruttivo: comincia con un capello che tira alla radice, ne mordicchia il bulbo, lo guarda e lo getta via per ricominciare con un altro , e un altro ancora. A volte è un piccolo gruppetto di capelli, altre volte vere e proprie chiazze che per un certo periodo l’hanno costretta alla rasatura completa per mimetizzarle.  
 
Un altro importante particolare è che questa operazione viene eseguita anche sulle gambe, tutt’ora oggetto di grande vergogna per i segni che vi sono rimasti: piccoli buchi dove si radica il pelo. In realtà R. asserisce di essere molto pelosa e di scatenare la sua rabbia sulla peluria con questo comportamento ossessivo tutte le volte in cui è particolarmente ansiosa o agitata. Prima di venire da me, ha seguito  una terapia cognitivista per qualche anno con una giovane collega con il risultato di ridurre significativamente per un certo periodo di tempo il comportamento ossessivo, ma di non risolverlo del tutto.  Quando viene da me, al contrario, il comportamento ossessivo si è ripresentato con più accanimento di prima : quello che R. vorrebbe ottenere con un nuovo percorso terapeutico è capire “perché”, e soprattutto ricevere un aiuto per vivere meglio.
 
Identificazioni.
Se rileggiamo questa breve sintesi della storia di R. si evidenzia immediatamente come la stessa abbia scelto come modello di identificazione il padre, descritto come impulsivo e violento, piuttosto che la madre, considerata  passiva e fragile. Sembra infatti che nella storia del proprio sviluppo, le componenti maschili (paterne) abbiano preso il sopravvento rispetto a quelle femminili della sua personalità. O, per lo meno, che i due aspetti siano cresciuti in modo disarmonico e conflittuale, scatenando nel corpo stesso pulsioni di segno contrario ed opposte, ma ugualmente intense. In questo senso la cute  e il capello ( o pelo) che dalla prima ha origine, sono gli elementi simbolici che meglio rappresentano questa lotta interna, rappresentando la storia della propria stessa nascita da un materno ( la cute) da cui accanitamente si vuole staccare.
 
Problematica relazionale
 
Ne consegue chiaramente come le relazioni intrapsichiche e interpsichiche di R. siano improntate su una forte ambivalenza e conflittualità .
Le immago genitoriali e le dinamiche identificatorie mettono in evidenza come la giovane ricerchi da un lato un compagno  forte cui contrapporsi violentemente,  dall’altro garantirsi un rapporto stabile che la sostenga e la “nutra” affettivamente  liberandola dalla paura dell’abbandono e della solitudine sofferta attraverso le vicende familiari. 
 
Inoltre, la non accettazione della propria fragilità emotiva e della propria vulnerabilità, tenute malamente sotto controllo nelle interazioni sociali, unitamente alla consapevolezza dei propri “buchi” affettivi, scatena in lei la paura di soffrire e pertanto l’attacco difensivo verso chi la accosta o atteggiamenti di diffidenza volti a “tenere lontani” quanti cerchino di entrare in contatto con lei con maggiore profondità. In tal senso anche la peluria che a suo dire ricopre abbondantemente il suo corpo, risulta essere un “manto” protettivo per evitare di avvicinarsi o farsi avvicinare dagli altri.  La paura di soffrire, la paura di subìre un (altro) abbandono, inducono R. ad evitare le relazioni affettive, o a distruggerle preventivamente,  ripetendo in modo simbolico il medesimo copione.
 
Il percorso
 
Decidiamo di incontrarci una volta alla settimana.  Fin dall’inizio R. aderisce al setting con precisione e serietà, malgrado talvolta i suoi aspetti ribelli e disordinati la mettono in difficoltà. In questi casi si dimostra sinceramente costernata e in difetto verso le regole stabilite, chiedendomi ripetutamente scusa e “perdono”.  Un aspetto decisamente opposto a quello che normalmente esibisce e che fa capo ad un profondo sentimento di colpa. Lavoriamo insieme per due anni senza interruzioni: è una terapia lenta e difficile. R. si confronta con le sue tematiche distruttive, arginando faticosamente gli impulsi che le procurano  incidenti banali, ma  fastidiosi, o in accese polemiche con tutti coloro che per qualche motivo le sbarrano il passo o la ostacolano o la contrastano. Fatica molto a misurarsi con le difficoltà quotidiane e a ridimensionare i suoi progetti, spesso poco realistici.
Non avendo consolidato dentro di sé una fiducia di base stabile, R. vive il mondo come ostile o comunque minaccioso, mettendo in atto atteggiamenti di sospettosità e di diffidenza se gli altri le si avvicinano in modo amabile. Sostanzialmente è convinta di non potere essere amata , il che contribuisce a mantenere un’immagine di sé negativa, sostenuta dai propri comportamenti mutilanti e dalle conseguenze che ne derivano.
Durante la terapia riesce a concludere il rapporto sentimentale che per lungo tempo aveva costituito un sicuro appoggio e un antidoto alla sua paura della solitudine, ma contemporaneamente noia e stanchezza per la personalità delicata e sensibile del ragazzo, troppo “femminile” per i suoi gusti. Alternando momenti di profonda contraddittorietà, e sopportando il peso della colpa , essendo stata lei l’artefice della rottura sentimentale, comincia un nuovo ciclo che la spinge ad occuparsi maggiormente di sé stessa e della sua crescita interiore. Pur continuando ad aggrapparsi alle proprie convinzioni, altalenando stati d’animo opposti,  riesce tuttavia a dedicarsi alla cura del proprio aspetto femminile,  rinnovando il taglio dei capelli e ricorrendo più spesso  al  trucco degli occhi, prestando maggiore attenzione all’abbigliamento e, in generale, rivolgendo a sé stessa più attenzione e benevolenza.
Conclude con successo il primo triennio della facoltà universitaria, raggiungendo così un primo  insperato traguardo.
La rottura sentimentale la spinge a nuove relazioni e alla  inevitabile ricerca di una sostituzione attraverso  esperienze e diverse conoscenze.
Nell’estate successiva, R. decide  di provare una esperienza di volontariato sociale in un paese dell’est.  Malgrado le molte incertezze  e  indecisioni  la costringano a continui ripensamenti,  convinta di non essere all’altezza della situazione, ma decisa a provarci, riesce a partire.  Durante il periodo all’estero succede quello che non si aspettava: un incontro (tra gli altri) di grande intensità emotiva con un ragazzo francese , sette anni più giovane di lei. E’ una “storia” che va oltre le sue aspettative, che la disorienta, che la spaventa per la forza che contiene.
Quando torna le brillano gli occhi e le risplende la pelle, e ha acquisito tutto d’un colpo la consapevolezza di potere (almeno) piacere, se non quella di essere amata. E’ questa infatti l’esperienza che più di ogni altra conferma la sua patologia: la sua incapacità a fidarsi delle emozioni, ad abbandonarsi al sentire , continuando a fare appello a convinzioni del tutto false pur di non lasciare andare gli eventi, ma invece a controllarli e infine  distruggerli. La convinzione della “impossibilità” è più forte della realtà del desiderio: la razionalità fredda e calcolatrice ne annulla la tensione, la spinta a viverla fino in fondo. Programmaticamente, direi scientificamente, R. uccide la storia. La distrugge come fa con i capelli e con tutto quello che da lei ha origine: non gli dà corso, né futuro, né vita. La annichilisce con i ragionamenti . La paura di una relazione stabile, della dipendenza affettiva, di una intimità voluta e temuta allo stesso tempo forniscono a R. il materiale per rifuggirla e interromperla , trovando nelle argomentazioni raziocinanti (lontananza, differenza d’età, ecc.) le giustificazioni più idonee.
Ancora una volta si ripete il copione rappresentato in  tutta la sua vita affettiva, ma è cresciuta la consapevolezza delle dinamiche interne e il  rituale non basta più a contenere l’angoscia della separazione né a sostenere l’illusione di averne il controllo. Ora è più forte il senso di perdita, la certezza di avere agito un sacrificio, ovvero il sacrificio della propria dimensione emozionale, della  parte più femminile e profonda.  Somaticamente avvengono delle trasformazioni: la pelle del volto segnala qualche foruncolo, come se si fosse sgranato il confine tra sé e gli altri e lo stesso facesse trapelare il fuoco interno, la dimensione emotiva così a lungo imprigionata dall’ipercontrollo e dalla finzione da un lato, o   espulsa attraverso i frequenti acting out e l’impulsività incontrollata dall’altro. Il conflitto sembra essersi spostato in superficie dove è più abbordabile,  più elaborabile.
 
La relazione terapeutica e il transfert
 
Fin dai primi incontri, R. mi segnala fiducia e accettazione. Aderisce al contratto terapeutico fissato in un incontro alla settimana , accettando le regole del setting e mostrando in esso aspettative realistiche. Dimostra sempre il desiderio di venire, a volte anche con impazienza, evidenziando significativamente di avere bisogno del mio appoggio come delle mie annotazioni sulle quali riflette ed elabora. E’ evidente che io rappresento per lei la “madre” ideale: capace cioè di mettere insieme aspetti femminili  e maschili, sensualità e pensiero, accoglimento dei suoi bisogni e criticità. Dall’altra parte,  con ogni evidenza, R. attiva in me la mia componente materna, depurata dei suoi aspetti emotivi ed ansiosi, ma tenacemente disposta a “prendesi cura” di questa giovane ribelle, della sua crescita psicologica, della sua necessità di strutturare la sua identità in modo più adeguato. Il rapporto pertanto si stabilizza nella sua complementarietà adattandosi alle diverse fasi di un processo  lungo e faticoso.
 
Evoluzione
 
Nel corso dei quattro anni di terapia , la terapia stessa ha subìto delle trasformazioni. Dopo un certo periodo di tempo, infatti, ho cercato di sollecitare il suo processo di autonomia proponendo a R. una interruzione della terapia e uno sganciamento dalla mia presenza. Erroneamente forse, avevo creduto che i risultati fino a quel momento raggiunti potessero bastare per rendere R. capace di sostenere una separazione, evitando che il rapporto di dipendenza che si era strutturato si consolidasse ulteriormente.  
Spiegandogli le motivazioni che mi avevano indotta a tale proposta nel modo più chiaro possibile, il mio annuncio acquisì per R. il senso di un “abbandono” rimettendo in gioco le reazioni già sperimentate nelle sue vicende familiari. Discutemmo insieme il significato di ciò che stava accadendo e, senza mai sottrarre del tutto la mia presenza e il mio appoggio, decidemmo di provare a staccare per un certo periodo i nostri appuntamenti favorite fra l’altro dal periodo estivo e dalla pausa  delle vacanze. Tuttavia immediatamente avvertii che la mia proposta era stata prematura e che non era stata accettata. Contemporaneamente mi accorsi però che il nostro legame era in grado di tollerare quella mossa , e che non era stato distrutto. Prevedibilmente infatti, alla fine dell’estate , i nostri incontri ricominciarono al ritmo di ogni quindici giorni, verificando che l’interruzione era servita ad entrambe per prendere coscienza della dipendenza terapeutica e della sua funzionalità rispetto al processo di cambiamento e di crescita che stava continuando. Con sbalzi avanti e passi indietro, avanzamenti e regressioni, R. riusciva sempre di più a sostenere il propri conflitti evitando di cadere in comportamenti particolarmente dannosi. In ogni caso era maggiormente padrona della propria impulsività,  più critica di fronte alle proprie “sbracature”, più consapevole  delle implicazioni contenute nei propri incidenti.
 
Elementi diagnostici
 
Da quanto esposto è facile ricondurre la problematica di R. nel quadro del disturbo borderline di personalità. I  repentini cambi d’umore, la frequenza delle crisi impulsive, la scarsa capacità di mantenere un progetto, la difficoltà a contenere le proprie reazioni emotive,  rientrano perfettamente nel quadro nosografico del paziente borderline . Tuttavia la solidità della nostra alleanza terapeutica ha nel tempo costituito un contenitore efficace per ridimensionare i picchi di questo quadro clinico, riuscendo a fornire una stabile chiave di lettura e di autoconsapevolezza dei propri comportamenti. Oggi R. è in grado di comprendere senza il mio aiuto le dinamiche emotive e i significati sottostanti alle proprie difficoltà  e,  se non è guarita ( nel senso della risoluzione ) dai propri comportamenti dannosi, ha certamente una maggiore padronanza degli stessi.
Da poco R. ha edificato anche un rapporto con i propri sogni, verso i quali precedentemente aveva eretto una barriera difensiva di rimozione e dimenticanza. Adesso non solo è in grado di conservarli nella memoria, ma anche di attribuirgli significato, elaborarli, rifletterci.
Rimane sempre un rapporto difficile e contraddittorio con la propria femminilità. Anche in questo caso oscilla tra momenti di grandiosità verso la propria immagine ad altri di totale rifiuto, di odio verso il proprio corpo non rispondente all’immagine ideale di sé.  
Eppure, suo malgrado, è diventata più bella, più seducente, più donna. Dentro il suo corpo convivono la ragazzina impulsiva e ribelle di sempre e la giovane donna consapevole dei propri limiti, ma anche delle proprie risorse. Il “pelo” sempre spaccato in due dai suoi ragionamenti ossessivi, ha perso un po’ del suo potere, pur servendosene ancora per difendersi dalle proprie paure.
Tante volte mi sono chiesta fino a quando potrà durare la nostra relazione terapeutica. Come e quando poterne decretare la fine. Credo che sarà la vita a farlo, le inevitabili scelte che R. dovrà compiere per il suo lavoro , per il suo ingresso nel mondo, sganciandosi definitivamente dalla dipendenza materna reale e terapeutica nella quale ancora vive. Le sue ambizioni si sono ridimensionate, ed è quasi giunta a concludere il secondo ciclo di studi universitari e a completare la specialistica. Forse la terapia resisterà ancora a lungo nella mente di R., sarà interiorizzata, diventerà parte di sé per sempre.
Credo infatti sia questo l’unico vero esito possibile, l’unico modo perché un paziente possa giungere a  sostenersi da solo, memore che qualcuno l’ha fatto per lui.
 
 
 

 
 

giovedì 19 settembre 2013

21 Settembre 2013




Come ogni anno, in occasione di questa giornata, dedico un pensiero speciale a mia madre, andata via con questa malattia più di dieci anni fa, sola, nella stanza di una pensione che fu la sua ultima dimora: l’unica - allora credemmo io e le mie sorelle -  per contenere le devastanti conseguenze della malattia. Gli anni passano e questo ricordo è il più imperdonabile della mia vita.

L’Alzheimer è una malattia che invalida gli individui, li mortifica, deteriorando il loro mondo, le loro relazioni, la memoria di sé , di chi si è stati, di chi si è amato. Per questo anche le famiglie, i figli,  e tutti coloro che gli stanno intorno finiscono per ammalarsi un poco insieme a loro, finiscono per morire un po’ come loro.

Per fare qualcosa per arginare una malattia in continua crescita, per prevenirla, per aiutare le famiglie coinvolte e sostenere i caregiver, l’Associazione AMA ha deciso quest’anno di scendere in strada con questo opuscoletto disegnato per loro da mio figlio: il suo modo per ricordare la nonna.

Un modo leggero per diffondere qualche informazione su una esperienza pesante; un modo informale  per invitare tutti noi a prenderci cura  della nostra mente.

A.M.A. Associazione Malati di Alzheimer , Via Salvatore Paola 9 Catania-3475923165

 

martedì 9 luglio 2013

Il processo di individuazione: diventare quello che si è.

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Così C.G. Jung:
Non mi sono accadute che cose inaspettate. Molto avrebbe potuto essere diverso se io fossi stato diverso.
Ma tutto è stato come doveva essere; perchè tutto è avvenuto in quanto io sono come sono. 


 L’individuazione viene definita da Jung come il processo di differenziazione che ha come meta lo sviluppo della personalità individuale; essa rappresenta quindi lo sviluppo dell’individuo, delle sue particolarità caratteriali, delle sue disposizioni e inclinazioni naturali, ma anche delle sue risposte all’ esperienza riportata nella vita, l’educazione, gli incontri, gli eventi. Diventare individuo significa staccarsi e delinearsi come soggetto diverso, unico, che, pur tenendo conto delle richieste dell’ambiente, tuttavia non si lascia uniformare, rispondendo in modo spesso in contrasto con le aspettative sociali. E’ indispensabile però che vi sia un preliminare processo di adattamento alle norme sociali , senza il quale l’individuo potrebbe pericolosamente non riconoscersi nei valori sociali e pertanto agire la propria individualità in modo egoistico ed amorale. L’individuazione è infatti un percorso che coinvolge l’individuo nella ricerca della propria autorealizzazione attraverso le scelte, il caso, le esperienze della vita, il rapporto con gli altri.
Teoricamente il processo di individuazione coincide con il tempo della vita. In senso analitico esso è il percorso di coscienza e di consapevolezza degli aspetti inconsci della propria personalità e della realizzazione del Sé nella sua globalità. Esso rappresenta un processo di elevazione spirituale: porta infatti ad un “ampliamento della sfera della coscienza” attraverso il dinamismo dialettico conscio-inconscio, collettivo-individuale, pulsioni istintive e doveri sociali, finalità individuali e finalità universali. E’ un processo molto complesso e travagliato che implica la scelta, la volontà, l’accettazione delle inevitabili conseguenze. Diventare quello che si è, in modo consapevole e pieno, è tuttavia un percorso difficile e impegnativo. Significa misurarsi con la propria Ombra, accettare gli aspetti meno “nobili” della propria personalità, riuscendo ad integrarli in una forma più ampia capace di trascendere i singoli aspetti di sé stessi per pervenire a una forma globale, irripetibile e unica. E’ un percorso di affermazione, spesso conflittuale e doloroso, ma necessario per passare dalla coscienza dell’Io alla coscienza del Sé. Se pure durante il tragitto può subentrare uno stato di spaesamento, di crisi , di rinuncia, a favore di una parte sociale da sostenere , diventare sé stessi è l’unico modo per raggiungere un grado di soddisfazione personale coerente con i propri bisogni più profondi e più autentici. Rinunciare alla “maschera”, delimitare i confini della Persona, significa evitare il tradimento di sé stessi per corrispondere alle aspettative degli altri, soggiacendo alle pressioni dell’esterno. Il processo di individuazione significa essere liberi, attori delle proprie scelte, protagonisti della propria vita.
In senso psichico esso conduce alla integrazione degli aspetti femminili (Anima) e maschili (Animus) della propria psiche: la coniunctio oppositorum. E’ un processo creativo, complesso, nel quale l’immaginazione ( simboli, sogni, metafore) ha un ruolo fondamentale in quanto consente di trasferire i contenuti dell’inconscio su un piano cosciente per poterli esplorare ed elaborare.
La psicoterapia junghiana aiuta e facilita il processo di individuazione, aiutando a penetrare nelle regioni più oscure della propria persona, spesso tenute a bada, o ritenute pericolose. Poterle conoscere significa trovare in esso quel potenziale creativo e quella ricchezza soggettiva che un atteggiamento troppo raziocinante impedisce e frena.

domenica 30 giugno 2013

La molteplice visione del film. Il cinema come terapia collettiva.

Intervento presentato al X Seminario internazionale del CISAT, Istituto degli studi filosofici di Napoli 28-30 Giugno 2013


Ringrazio il Prof Pasanisi, e tutto il consiglio direttivo del Cisat per avere accolto la mia richiesta di partecipazione  a questo importante convegno. Il mio contributo a questo incontro è il racconto di un’esperienza maturata nel corso di quattro anni insieme al gruppo della mia giovane associazione. Il racconto di un viaggio nel territorio siciliano dove abito per portare riflessione e pensiero in contesti a portata di mano, a portata di gente. Come scriveva Hillman in Re-visione della psicologia:

 "La terapia, o l'analisi, non è solo qualcosa che gli analisti fanno ai pazienti, essa è un processo che si svolge in modo intermittente nella nostra individuale esplorazione dell'anima, negli sforzi per capire le nostre complessità, negli attacchi critici, nelle prescrizioni e negli incoraggiamenti che rivolgiamo a noi stessi. Nella misura in cui siamo impegnati a fare anima, siamo tutti, ininterrottamente, in terapia."  

Convinta dunque che è necessaria una terapia delle idee e non soltanto quella dentro gli studi, è partito questo progetto.

 

La molteplice visione del film: il cinema come terapia collettiva.

Nel 2009, insieme a un gruppo di giovani colleghi, a un artista e a una imprenditrice, e sotto l’impulso di una immagine di Bellezza che la sottoscritta aveva particolarmente avvertito , è nata l’Associazione ContAnimare che ancora ho il piacere di guidare. Lo spirito iniziale era quindi ispirato dalla dea Afrodite e le intenzioni,  dichiarate già nello statuto , quelle di mettere insieme arte e visione psicologica, contaminando  con il sapere psicologico quello che via via avremmo deciso di affrontare,  approfondire, o realizzare. Fin dalla prima stagione, una particolare attenzione è stata dedicata all’arte cinematografica. Da alcuni anni la sottoscritta si dilettava a recensire  film con contenuti particolarmente stimolanti e significativi rifacendosi al pensiero psicologico di matrice junghiana e hillmaniana.  Nella convinzione che l’arte cinematografica sia oggi la più adatta a raggiungere con immediatezza la collettività sociale, a indurla a riflettere sui grandi temi che agitano la vita umana e sulle problematiche della contemporaneità; in un epoca in cui l’immagine ha un posto fondamentale  (la società dell’immagine per l’appunto ) per le comunicazioni, la cultura, lo spettacolo , e molto altro,  il linguaggio cinematografico non può che essere privilegiato rispetto ad altri linguaggi artistici proprio per il suo intreccio di immagine, movimento, commento musicale, testo. Questa pluralità di stimoli percettivi rende possibile la “riproduzione” del reale in modo immediato e facilmente fruibile, rendendo il linguaggio cinematografico il più adatto a  catalizzare l’attenzione dello spettatore attraverso i processi di identificazione, proiezione, emulazione,  poggiando su un immenso potenziale emotivo  in grado di agire a diversi livelli, anche in modo subliminale, sulla  sfera intellettiva, emozionale, razionale . Con questa idea di fondo, già dal primo anno, abbiamo elaborato l’idea di proporre la visione di alcuni film in contesti diversi da quello convenzionale, con l’intenzione di favorire lo scambio tra gli spettatori anche durante la visione liberandolo dalla normale fissità, silenziosità, oscurità che una sala cinematografica  richiede. Così abbiamo deciso di portarlo in enoteca, puntando anche su un altro obiettivo: quello di attrarre maggiormente la partecipazione dei giovani, oggi più propensi a guardare un film in tv o al computer , magari tra amici,  piuttosto che  chiudersi nel buio di una sala cinematografica, in silenzio e immobili. In più, in enoteca, era ragionevole pensare che mentre si guardava il film si potesse avere piacevolmente un bicchiere di vino tra le mani.  Visione e vino” è il titolo di questa prima stagione dell’associazione ContAnimare con la quale ebbe inizio il “viaggio” in questa esperienza con il cinema fuori dalle sale e in un contesto più colloquiale e interattivo di quello usuale.

 Così abbiamo immaginato e proposto i film del primo ciclo:

“Il film, le sue immagini, i suoni che le accompagnano, sono visioni che nel buio di una sala cinematografica producono una elaborazione solitaria, spesso incomunicabile, fondamentalmente silenziosa. Un film con un bicchiere in mano altera il rapporto tra immagine e pensiero. Interrompe la linearità del processo mentale, lo disturba. Cambia il setting e con esso la relazione che si produce. L’emozione può comunicarsi, il senso può essere discusso, il significato ri-pensato insieme ad altri. Cambiando il contesto , cambia la visione: forse sarà con-fusione o un altro film, vissuto, bevuto, e-laborato. I film che abbiamo scelto per questo contesto “altro” portano in circolo tematiche attuali, complesse situazioni del nostro mondo e del nostro sociale, ma lo fanno con una sfumatura di ironia che rende leggere le problematiche pesanti che li attraversa, come fa il vino quando riesce a distendere i problemi che ci assillano. Sarà un occasione per rileggerli insieme, cogliendo con occhio psicologico la realtà che sta dietro ogni immaginazione, coinvolgendoci come

i più diretti protagonisti”.

 I film scelti per questa prima , nuova esperienza , obbedivano a una precisa logica : quella di turbare le idee preconcette e acquisite su tutto quanto riguardasse la sessualità, l’amore, l’omosessualità, le relazioni. Il viaggio, metaforizzato dal film Il treno per il Daijrling era un invito a lasciare andare qualunque idea stereotipata e “barocca” (studiata, ricercata) delle cose e lasciarsi andare al flusso degli accadimenti. La metafora portante del film era quella che “anche un treno si può perdere”, come a dire che anche i binari sui quali si crede di orientarsi , ai punti di riferimento sui quali ci si poggia, a un certo punto si confondono , si smarriscono .

Era inconsapevolmente ciò che sarebbe accaduto a noi stessi.

Alla fine di questo primo ciclo, ci rendemmo conto che , senza volerlo, avevamo  tracciato un disegno preciso e significativo che portava direttamente ad una riflessione profonda sul senso delle relazioni affettive, tra i nuclei più problematici delle stesse, tra le contraddizioni che il rapporto con il mondo circostante ci obbliga di affrontare nel cammino per diventare ciò che siamo. Insomma eravamo nel vivo di un processo di individuazione che il nostro stesso gruppo stava iniziando.  

Da questo primo muoverci, un po’ a tentoni, un po’ consapevoli, l’anno successivo avevamo più chiarezza su cosa volevamo esplorare e su quali opere cinematografiche fondare il secondo ciclo di incontro. Essendo tutto in movimento abbiamo intitolato la seconda stagione della nostra associazione “Flussi migranti” e deciso di portare le proiezioni  in libreria con il titolo   Relazioni difficili.

La  tematica scelta nasceva per evidente consequenzialità da ciò che avevamo dibattuto l’anno precedente. Dopo l’enoteca e l’atteggiamento “liquido”, instabile ed estemporaneo di Visione e Vino, la libreria ci sembrò più adatta per discutere con più attenzione i film scelti , decisamente più pesanti, e per “strutturare” una forma laboratoriale  ed elaborativa della visione di un film. Altra innovazione che da quel secondo ciclo abbiamo mantenuto, è stato quello di riintitolare il film, secondo il nucleo interpretativo che avremmo voluto sviluppare.  Cominciammo con Festen per elaborare La fantasia della buona famiglia, continuando con l’inquietante Elephant e la necessità di porsi Al di là del bene e del male per potere anche solo sfiorare i malesseri e i disagi dell’adolescenza. Seguirono le riflessioni sui rapporti d’amicizia, sulle delusioni amorose, la solitudine,  il contatto con la morte, il confronto con le tematiche dell’immigrazione.

 Lo presentammo così:

Flussi migranti è il titolo che la nostra associazione ha voluto dare a questa prossima stagione di proposte ed eventi. Migranti non solo e non tanto perché gli stessi si muovono in spazi e contesti sempre diversi, ma perché l’intenzione che sta alla base del loro flusso è quello di contaminare i territori dove passano, disseminando idee e immagini capaci di colpire, destabilizzare, alterare gli stati di coscienza più usuali e consolidati per farne materiale tras-formato. Una sorta di riciclaggio di stereotipie e preconcetti che stanno alla base delle nostre finte certezze. L’obiettivo quindi non è semplicemente alimentare il rito collettivo del far qualcosa per spezzare la monotonia quotidiana, quanto quella di inquietarla, costringendoci a ripensarla. La prima di queste infiltrazioni mentali è la rassegna cinematografica che parte il 14 Novembre alla Libreria Mondadori , dove si svolgeranno sei incontri su un tema piuttosto banale a prima vista, quello delle “Relazioni difficili”, di cui tutti più o meno siamo, o siamo stati, registi e attori , attraverso sei film scelti nella produzione di circa un decennio (dal 1998 al 2009). E poiché la relazione è la realtà che ci è più propria fin dalla nostra nascita, comprendendo in essa tutti gli aspetti che connotano il nostro “essere nel mondo”, le opere che abbiamo scelto porteranno in scena la difficoltà di questo esistere qui e ora come lì e allora, tra le nostre necessità e le nostre aspirazioni, tra i nostri obblighi e i nostri desideri, tra la pesantezza del nostro corpo che ci lega e la leggerezza del nostro pensiero il cui unico scopo è liberarsi da ciò che lo vincola. Ancora una volta, abbiamo scelto il linguaggio cinematografico come quello più adeguato per leggerne il significato tra le righe, il più duttile per farne elemento di elaborazione collettiva fornendo alla mente con immediatezza tre stimoli percettivi fondamentali a suscitare significativi impatti emotivi: l’immagine, la parola, la musica. A questi rivolgeremo una particolare attenzione nel prossimo evento.

 Partendo dalla disastrosa riunione familiare di Festen nel chiuso di una dimensione alto borghese, e concludendo con il respiro del mare della disperata traversata di Welcome, la problematica del rapporto con l’Altro è stata affrontata a tutto campo, attraversandone ogni confine, ogni terribile testimonianza.
Le immagini, feroci, della complessità dei rapporti umani hanno saputo legare insieme il gruppo dei partecipanti che , lentamente, si sono ritrovati insieme a leggere un testo nel quale tutti si riconoscono e si trovano coinvolti, così iniziando  a interagire e confrontarsi: insomma a fare relazione.
Con questo secondo ciclo, il gruppo, che nell’anno precedente rimaneva ancora piccola folla, pur restando sempre aperto e quindi in ogni caso variabile,  si riusciva a compattare  in un nucleo stabile, pur con le inevitabili variazioni ad ogni incontro, ma contemporaneamente crescendo il senso dello stare insieme, del coinvolgimento emozionale che in precedenza rimaneva più ancorato al giudizio di ordine etico, estetico, intellettuale, raziocinante. Il gruppo insomma in questo secondo anno ha cominciato a fare “anima” come avrebbe detto Hillman  cominciando  anche a strutturarsi come corpo collettivo, o quanto meno gruppale.  

E poiché la prima relazione è con il corpo che ognuno di noi abita, ecco già delinearsi la tematica dell’anno successivo che infatti abbiamo  dedicato al corpo.

Metafore del corpo è stato il titolo della stagione dell’anno 2011/2012 e attorno alla corporeità abbiamo costruito , credo, il passaggio più fondamentale e fondante dell’intero itinerario che , gradualmente,  si era consolidato ed evoluto in seno al gruppo dei partecipanti.

Ecco come Laura Nicosia,  socia ordinaria di ContAnimare, psicoterapeuta espressiva in formazione,  ha presentato il nuovo ciclo di seminari:

 Il corpo è un incontro che coniuga ispirazione ed esperienza, contingenza e storia.

E' la mappa sulla quale l'Altro ha lasciato le sue orme e lanciato le sue grida e può esistere solo se abbiamo permesso che queste orme e queste grida lo attraversassero. In questo senso il corpo è qualcosa che può fare sorpresa, la stessa sorpresa che viene dall'impatto con l'enigma che lo abita. Ed è la stessa sorpresa che accogliamo attraverso l'amore, il desiderio, la sessualità, la creazione artistica...eventi che consentono di accedere alla possibilità di "avere" un corpo, di "farsi corpo".

E il corpo umano è al tempo stesso qualcosa del quale è possibile parlare e un corpo parlante, cioè abitato dal linguaggio, non assoggettato al suo puro funzionamento biologico, ma un corpo toccato dalla discontinuità, da segni che vanno al di là dell'unità biologica. Del resto più la parola si eclissa e più sul corpo proliferano i segni di ciò che rimane impronunciato, ma non per questo smette di parlare. Anche i sintomi contemporanei testimoniano la discontinuità introdotta nel corpo umano dal potere del linguaggio e dalla sua azione di cui il sintomo si fa indice. Si parla di sintomo come di metafora, metafora del corpo, corpo che viene segnato dal soggetto che vi appone la sua firma e che con questo atto lo rende il destinatario dello sguardo dell'Altro desiderante oltre che dell'identificazione con il proprio essere.

E la ricerca della felicità tenta di consumarsi oggi più che mai attraverso il proprio corpo, nell'immagine perfetta che ci facciamo del nostro corpo, il quale diventa quasi senza tempo se vogliamo affidarci affannosamente alle più estreme cure e modificazioni estetiche, tentando di neutralizzare la minaccia dell'invecchiamento.

Ogni "metafora" del corpo dà voce, per sostituzione, al piacere e al dramma umano e il ciclo di seminari proposto invita ad una riflessione sul senso e sul "peso" che questo tipo di linguaggio metaforico assume di fronte al tentativo euristico di spiegare la natura umana.

I seminari affronteranno i temi descritti attraverso scene tratte da opere   cinematografiche  di W. Wenders, L.Bunuel,  J.Campion, T.Ford, I.Coixet ed altri.


Questa volta abbiamo cambiato un po’ la struttura degli incontri, affidando la lettura di ogni film a un relatore diverso e di diverso orientamento,  non solo psicologico , proprio per dare un carattere di interdisciplinarietà ai commenti e valorizzare la diversità delle prospettive.

Il luogo scelto questo volta è stato una biblioteca. Luogo che ha segnato un altro passaggio nella nostra opera di contaminazione e dove il contesto (più silenzioso e riflessivo) ha favorito l’emergere delle reazioni emotive che non sono state più la somma o l’ accostamento di quelle individuali, ma la reazione di un corpo-gruppo unico, finalmente gruppo  e non soltanto estemporaneo momento di  incontro.  Il passaggio in questo senso ha con ogni evidenza lasciato l’aspetto culturale per entrare, in punta di piedi, ma in modo molto potente, in quello terapeutico.

Non solo il gruppo si consolidava , ma, ad un altro livello, si sostanziava e si definiva il carattere e l’identità della nostra associazione. Il processo di individuazione, che attraverso le immagini , i dibattiti, gli incontri si era alimentato e sostenuto lungo questo tragitto, ci aveva reso più maturi, più consapevoli, dandoci la capacità di poterci affermare sul territorio della nostra città in modo riconoscibile e pieno.

Inoltre, era stata così potente e coinvolgente l’esperienza precedente che senza troppo pensarci abbiamo dedicato al Potere e alle sue innumerevoli facce il nuovo ciclo, partendo proprio dal potere delle immagini:  quel potere che ci avevano condotto fin là.

E allora ecco nascere il nuovo progetto, l’ultimo , cui abbiamo dato il titolo de Le anomalie del Potere.

Partendo da un incontro introduttivo questa volta sul potere delle immagini e i suoi confini, a cura del prof. Sebastiano Mangiameli, esperto in comunicazione, ci siamo inoltrati nei territori del Potere inteso come:   potenzialità. Non il fare, ma la capacità di fare ( Hillman ) e quindi come possibilità inerente l’essere umano, individuale e collettivo. Con questa premessa abbiamo esaminato come questa possibilità sia una “scelta”, agita attraverso la violenza e la forza,  con la premeditazione vendicativa e la manipolazione, attraverso la passione amorosa e la persuasione.

Da Arancia meccanica al Discorso del Re, il potere ha prestato la sua faccia per sollecitare  innumerevoli riflessioni, approfondimenti. Abbiamo considerato come esso sia il luogo dell’affermazione personale, del sopruso, della follia.

Citando ancora  Hillman, esso spunta da ogni parte  :  è il contenuto più frequente di ogni nostro discorso o determinazione,  progetto o idea.  Abbiamo voluto, attraverso questo percorso cinematografico, soffermarci in particolare sui risvolti più inediti del potere , sulla sua faccia oscura, insistendo su quelle anomalie che sempre lo accompagnano , spesso spia di grandi fragilità psichiche e di grandi contraddizioni sociali.

 
Concludendo questo reportage, voglio sottolineare come , partendo un po’ alla cieca ma con l’intenzione di utilizzare il linguaggio cinematografico come mezzo se non strettamente terapeutico, certamente come strumento di comunicazione per  “ripensare”  i grandi temi dell’uomo,  affrontando le tematiche proposte attraverso diverse chiavi di lettura ,  siamo riusciti non solo a veicolare attraverso le immagini messaggi particolarmente significativi, ma anche a  strutturare nel tempo dei quattro anni qui sintetizzati,  un’esperienza collettiva aperta, dal grande valore culturale e sociale, ma anche , in definitiva , terapeutica. Se l’Arte infatti ha come suo obiettivo quello di ribaltare la realtà quotidiana, di aprire a nuove visioni, scardinando pregiudizi e luoghi comuni, il linguaggio cinematografico attraverso i l film scelti ha senz’altro aderito a questa funzione e “creato” una nuova pagina –piccola-  nella storia del contesto catanese , agendo  come luogo di “trasformazione” individuale, collettiva e sociale .

A questa finalità ci siamo avvicinati,  dando luogo ad un processo creativo che ha  lasciato una traccia non soltanto in tutti i partecipanti, ma anche nella affermazione della nostra identità associativa, che ha scelto l’Arte per attivare immagini archetipiche profonde e mezzo comunicativo ideale per parlare con tutti.

Lilia Di Rosa