STOP allo 048 degli Oggetti, Mostra Internazionale d'arte contemporanea sul tema del riciclo.
Mettere
insieme arte e malattia in un contenitore che ha come nucleo fondamentale il
tema del riciclo non è stato facile, ma è certamente stato molto invitante per
chi, come me, ha dedicato la maggior parte della propria vita professionale in
un ospedale senza mai rinunziare alla passione per l’arte . Mettendo insieme
queste due anime, ho provato a tracciare le mie considerazioni a proposito di
un argomento che credo oggi non si possa e non si debba ignorare.
Non solo l’arte infatti, ma anche la medicina,
è oggi in una fase di “mutazione” in quanto ha a che fare con la tecnologia e
con la visione che la stessa ha prodotto nella vita dell’Uomo. L’influenza che
la tecnica esercita nella nostra esistenza è oggi alla portata di tutti anche
se non sempre è accompagnata da una riflessione critica altrettanto diffusa.
Senza volere in alcun modo utilizzare gli schemi di giudizio propri dell’etica,
né le categorie dell’estetica, le considerazioni che porto qui, si muovono dalla osservazione di come la tecnica abbia
modificato la concezione della Vita in
vista della funzione piuttosto che dello scopo concependo pertanto
un organismo (sociale, collettivo, individuale) come una macchina. Le macchine infatti hanno come scopo il loro
funzionamento, l’efficacia, la produttività, ma sono cieche al senso,
che ha a che fare con il bisogno di attribuire significato alle esperienze e a cercarne il
perché. In una società fondata sulla funzionalità, la macchina diventa la
protagonista prima e i valori cui fa riferimento sempre più si discostano dalle
emozioni e dai sentimenti , allargando la scissione dell’uomo entro se stesso.
Scrive
Umberto Galimberti nel suo “ L’uomo ai tempi della tekne”: In realtà la tecnica ha sostituito la natura che ci circonda e
costituisce oggi l'ambiente nel quale viviamo. Noi però ci muoviamo
nell'ambiente-tecnica con i tratti tipici dell'uomo pre-tecnologico che agiva
in vista di scopi, con un bagaglio di idee proprie e di sentimenti in cui si
riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non apre scenari di salvezza,
non svela verità, la tecnica "funziona".
Nella
società tecnologica ci lasciamo guidare dalla ragione che scaturisce dal “si
può fare” e quindi dal “si deve fare”, mettendo spesso da parte
il senso di quel potersi fare. E’ questo l’aspetto più inquietante dell’uomo
tecnologico, soprattutto in ambiti come la medicina che, malgrado il suo
indubbio progresso, sconfina nella visione dell’uomo- oggetto, dell’uomo-
macchina fatto di pezzi da aggiustare o da sostituire, a scapito della sua
integrità.
In
un contesto come quello suggerito da questo evento, il riciclo, che è “l’arte” di riutilizzare gli scarti per
dare agli oggetti nuova vita, ri-creando un nuovo oggetto, come
possiamo intendere l’attuale “arte”
medica che , nel considerare il corpo come aggregato di pezzi, come
macchina funzionale a vivere il più a
lungo possibile, non si chiede abbastanza quale sarà la qualità di questa ri-creazione?
Alla stregua di un oggetto che è bene conservare a lungo dandogli nuova forma, il corpo-oggetto della
tecnica , luogo assoluto della sua soggettività, come potrà reagire (emotivamente,
psicologicamente) a questa nuova forma?
Questi
sono gli interrogativi che mi sono posta nel preparare questo incontro, la cui
tematica parte dalla considerazione che la malattia è disfunzionale per una società che vorrebbe essere immune dal male,
e che pertanto la rifiuta, la scarta, in quanto contrasta con i valori
dell’efficienza e della produttività che gli sono propri.
Fondare
una ecologia della salute, significa
quindi non dimenticare che l’uomo appartiene alla natura (in quanto corpo) e
allo spirito ( in quanto mente ) e non
alla tecnica, e che quest’ultima ha senso solo nella misura in cui aiuti l’uomo
e non lo domini con possibilità spesso distruttive e non ri.creative
di quell’ambiente interiore nel
quale l’Uomo si riconosce.
..Il rene è stato venduto per 150.00 yen”
.
“Vuole vendere un rene per pagare le bollette.
L'annuncio shock è di una 65enne di Roccastrada (Grosseto), La donna, vedova e invalida al 90%, non sa
come pagare le bollette e neppure come mangiare.
In realtà c’è una grande
differenza tra il corpo vissuto (leibe)
e il corpo della scienza (korper):
il primo è il corpo che appartiene al mondo della vita, è soggettivo e fondato sul sentire:
il secondo è quello che appartiene al mondo della scienza, è oggettivo e astratto. La diffusione del
cosiddetto pensiero scientifico e l’adozione acritica del suo punto di vista,
ci ha espropriato dal corpo e dalla nostra soggettività che sempre più rimane
ai margini sia quando trattiamo il mali
interni (classificati in sintomi ) che
quelli esterni, sempre facenti
riferimento ad un modello, socialmente imposto. Il corpo finisce per
appartenere più agli altri che a noi stessi: alla medicina, alla cultura,
all’estetica, alle nosografie, alle classificazioni. Questo corpo estraneo,
manipolabile e modificabile, diventa vendibile , come qualunque cosa. Diventa pezzo da eliminare, diventa corpo- spazzatura…
Guardiamo queste due scene ……
Se buttare via un oggetto è
dichiararlo a morte, e il suo riutilizzo auspicabile e fonte di creatività e
innovazione, trasporre questo in medicina e al corpo umano è molto pericoloso.
Il corpo è soggetto, non oggetto. Noi
siamo il nostro corpo, e non abbiamo
un corpo. La nostra soggettività
consiste nella fondamentale unità tra la nostra identità corporea e quello che
attraverso essa esperiamo. Anche la malattia è un’esperienza, a volte anche
necessaria, non soltanto distruttiva o inutile.
Attraverso la malattia noi
scopriamo altre parti di noi, risorse spesso insospettate, capacità che non
pensavamo di avere. Non è un elogio alla malattia, ma l’accettazione della sua
esistenza che non può essere eliminata del tutto malgrado i miglioramenti e i progressi della scienza. E’ più
pericoloso e illusorio credere che si possa eliminare la malattia e la morte
che accettare la sua realtà, conviverci, imparare da essa , piuttosto che
rimuoverla o ignorarla o, al contrario, rifiutarla.
Tra i rifiuti della nostra
società, c’è certamente la malattia. Pensiamo a quanto ancora oggi sia
difficile parlare della infezione da HIV. La sigla si associa a una altra
terribile verità: l’Aids. Per chi ha
lavorato con questa realtà sa bene che il tabù che l’accompagna è ancora
fortemente presente malgrado i progressi che la scienza ha fatto per
contenerla, per evitare l’epidemia, quella che in altri paesi poveri è ancora
una piaga sociale enorme. Ma non è ancora del tutto esaurito il contagio
emotivo , la reazione di intolleranza che ancora suscita. Ancora oggi non è
facile trovare chi tranquillamente dichiari questa malattia. Dai tempi del
famoso film Philadelphia, la sigla
HIV rimanda a quella che ancora viene considerata la “immondezza” sociale, la monnezza da non considerare come parte
di noi, ma da scartare, da evitare . I pregiudizi che l’accompagnano sono
ancora enormi, e chi vive la realtà Aids tace, si nasconde, se ne vergogna. Ma
parliamo dello 048: esenzione ticket dell’altro grande tabù, il cancro. Si, certamente rispetto alle
metafore di una volta ( brutto male, male oscuro, lunga malattia….ecc.) oggi se
ne parla più chiaramente e in termini scientifici ( melanoma, carcinoma ecc ).
Ma
resiste ancora una sorta di velo , di riserbo, quasi fosse una vergogna
o una colpa che inesorabilmente viene associata alla morte, o perlomeno alla
possibilità della morte. In questa
nostra società
In questa visione che oggi
rifiuta il senso esistenziale della vita e quindi della sua conclusione, bisogna
recuperare il significato e non solo
la ragione clinica della malattia e
della morte. Uso ancora le parole di
Galimberti:
Il rifiuto ideologico della malattia e della sofferenza che
sottosta alla cultura contemporanea, ci rende di fatto più vulnerabili e più
fragili, non ci educa a sostenere i momenti difficili della vita, ma nutre in noi la pretesa che il guasto si
possa e si debba aggiustare, che i mezzi disponibili siano sempre
necessariamente utilizzabili e che la medicina
sia il luogo della delega e non della cura. Dietro questa “salute “ a
tutti i costi, dietro a questa rimozione collettiva del dolore e della morte,
come anche della sua spettacolarizzazione, si nasconde la vera “malattia” della
modernità, la sua finzione e la sua nevrosi.
In una intervista fatta all’autore sul senso delle sue “creazioni” gli è stato chiesto
Lei farebbe plastinare il suo corpo?
Naturalmente! Cosa potrebbe succedermi di meglio che continuare a vivere dopo la morte? Il mio corpo contribuirebbe agli studi sull’anatomia, cosa che io ho fatto tutta la vita.