La metafora alimentare
investe e descrive ogni aspetto della vita dell’uomo e della cultura cui
appartiene, nonché dell’importanza attribuita in tutte le culture alla
corporeità e alle sue forme. Pensiamo a quante connotazioni ha il termine
carnale (da l’essere in carne, al passionale, sensoriale, ecc), o sentimenti
quali il disgusto, la nausea, ecc. Per non parlare della metafora del peso che allude al peso del corpo
quanto a quello dell’importanza, o a concetti quali amaro, dolce, acido,
disgustoso, che tratteggiano i caratteri delle persone attraverso il sapore cui
rimandano. Vorrei soffermarmi sul termine disgusto: forse la sensazione tra le
più sgradevoli che si possa provare di fronte a cibi, persone, comportamenti,
lungo un continuum di sensazioni che provocano nausea, disapprovazione estrema,
fino all’orrore e al vomito: sintomo corporeo dell’ estremo rifiuto. L’incorporazione
infatti non risiede certamente solo nella bocca, ma in quell’ assunzione di tutto
ciò che noi portiamo dentro attraverso gli organi di senso: vista, udito, olfatto, sesso.
Pensiamo alla nausea gravidica come
esperienza tutta femminile di disgusto
interiore dovuto alla necessità di incorporare
dentro di sè una nuova vita , segnale di ambivalenza estrema tra ciò che si
avverte come estraneo pur essendo
proprio. Tutto quello che appartiene al mondo esterno è accuratamente
selezionato non solo dagli organi di senso ma dalla nostra stessa struttura di coscienza che ci indica cosa
portare dentro, assimilare, elaborare , fare nostro, e quello da respingere ,
rigurgitare, vomitare, rigettare, pena la rottura del nostro equilibrio. Perché non
solo il cibo, ma certamente insieme al cibo, tutto quello che noi incorporiamo inevitabilmente
ci trasforma, si sedimenta, si accumula nel nostro corpo come nella nostra
mente e nella nostra coscienza. Il cibo quindi non è mai soltanto materia più o
meno ricca di sostanze nutritive, ma è atmosfera affettiva, espressione di
istinti profondi, armonia con la natura e con tutto ciò che ci circonda,
modificazione del nostro stato di coscienza.
Se tale selezione era prima determinata
anche da un sistema di regole dettate
culturalmente ( abitudini familiari, rispetto delle festività, precetti religiosi, ecc.) contenendo
l’individuo entro schemi normativi condivisi, la generale anomia della società contemporanea ha sviluppato regole/non regole derivanti dalla necessità di compensare l’eccesso
di edonismo, opulenza, controllo estetico entro il quale noi viviamo, lasciando alla scelta individuale la selezione
di cosa portare dentro e come.
Ne risulta una molteplicità
di regolamenti ideologizzati che
sviluppano atteggiamenti di
stigmatizzazione di tutto ciò che può essere dannoso alla salute ( a partire
dai grassi , un tempo simbolo di ricchezza e di abbondanza non solo alimentare)
. Inoltre , l’odierna “medicalizzazione” della vita è entrata prepotentemente
anche nella definizione dei regimi alimentari più adatti per evitare malattie di vario
genere, alimentando l’ossessione del mangiare sano come punto di partenza per
un vivere duraturo e felice. Viene così a diffondersi una drastica eliminazione di alimenti ritenuti
dannosi, ancora più dannosi in quanto
associati a concetti e realtà che non si vorrebbero mai assorbire: l’idea della malattia, della morte,
dell’infezione, del contagio. In una modernità che anela “
a un corpo trionfante, sano giovane e
abbronzato, l’individuo esercita su di esso un controllo ossessivo” , come sosteneva Le Breton già nel 1990. Controllo che si è concentrato sul cibo come simbolo di
tutto quello che del mondo viene portato dentro attraverso i suoi canali e i suoi orefizi (la bocca in particolare)
nel tentativo di contenere l’ansia che lo affligge.
Si sviluppa così e si
diffonde un’altra patologia che, per quanto ancora poco conosciuta, occupa un
posto ragguardevole tra i disturbi alimentari, l’ortoressia, (dal greco orthos
-corretto e orexis –appetito ) : una
forma di attenzione abnorme alle regole alimentari dovuta alla
paura di ingrassare o di ammalarsi attraverso cibi contaminati o impuri. Una
vera e propria “mania nutrizionale”, che nasconde l’ ossessione di alimentarsi
in modo sano per mantenere la propria
salute. Il cibo , o meglio il pensiero del cibo ( cosa mangiare, dove
acquistarlo, attenzionare le reti di distribuzione dei prodotti, ecc) finisce per invadere la vita di chi ne è vittima,
allontanandolo sempre più non soltanto dal piacere e dal gusto del cibo , ma
anche da tutte quelle situazioni conviviali che non può controllare
direttamente, contribuendo ad un isolamento sociale entro il quale l’individuo
crede di proteggersi, rifiutando di fatto la relazione con il mondo che lo
circonda e interrompendo drasticamente la comunicazione simbolica che attraverso
il cibo ogni comunità ha da sempre elaborato. A livello collettivo, la
numerosità e la grande variabilità di tali comportamenti prescrittivi e di
drastica riduzione di alcuni alimenti, sembrano simbolizzare il tentativo di
riequilibrare, per non dire “espiare” , la colpa che la società occidentale, opulenta e bulimica , vive nei
confronti di quella parte del mondo che
ancora vive nella miseria e nella fame.
Bibliografia:
D.Le Breton: Antropologia del corpo e modernità Giuffrè editore
G.Nicolosi: Lost food. Comunicazione e cibo nella società ortoressica Prima edizion,Catania
D.Zappalà Cibo, corpo e società Tesi di Laurea Facoltà Scienze Politiche di Catania AA 2008/2009
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