Libera
interpretazione dell’incontro del 10 Gennaio 2014 con Giuseppina Radice al
Caffè psicologico di Contanimare.
“Crescere, comprendere, e/o diventare
jongleurs è proprio una grande opus”“Crescere, comprendere, e/o diventare
G. Radice
Il fare artistico, così come il fare
(psico)terapeutico sono attività dell’anima e per loro natura processi che
coinvolgono sia l’attore che lo spettatore; percorsi contemporaneamente di
esplorazione e di rivelazione del sé e dei suoi confini, sempre irraggiungibili
ma tuttavia “contenibili” nell’opus del fare
anima. In entrambi si muove il desiderio di penetrare i suoi spazi
sfuggenti, i suoi giochi e i suoi labirinti, essendo sia l’artista che il
terapeuta viaggiatori erranti entro una materia che continuamente cambia forma
e dalla quale, entrambi, sono plasmati e trattenuti. L’uno e l’altro non hanno
altra meta se non il loro stesso fare, poiché la tensione che li muove è
l’ansia della scoperta di sé che si riflette nell’altro da sé. Entrambi si servono
dell’immagine. Come dice Hillman, nelle
immagini la psiche rivela la sua potenza e la sua forza, al di là della
intenzionalità della coscienza, molto più di quanto quest’ultima voglia o possa
comunicare.
Entrambi si nutrono di intuizione, senza la quale non
ci sarebbe accesso all’invisibile, e gli eventi non troverebbero legame e
connessione, restando macchie isolate e
senza senso. Entrambi sono luoghi non
luoghi entro cui l’esperienza soggettiva diventa storia universale,
narrazione, musica, raffigurazione, comunicabile e condivisibile: per questo il loro
legame è antico e inscindibile.
Certamente una delle metafore che li accomuna è quella del percorso, viaggio, processo.
Termini che ne rivelano l’intimo dinamismo: un movimento che non si orienta verso
una meta precisa ma che si muove guardandosi intorno. Non viaggio verso, ma attraverso. Spostamento.
Dall’usuale allo straordinario, dal noto all’ignoto, dal abituale all’insolito.
L’artista come il terapeuta entra nella realtà dell’anima, le dà forma e sostanza,
e contemporaneamente ne diventa oggetto, materia. L’inseparabilità tra soggetto
e oggetto è un’altra delle analogie
che sottendono i due processi: come il
terapeuta tiene aperto lo sguardo sull’altro che gli richiama sé stesso, così
l’artista crea quell’altro da sé che rivela il più profondo sé. Nel loro “fare”
mai possono estraniarsi da sé stessi . Eppure
il dimenticarsi e il mettersi da parte è condizione indispensabile per penetrare nei labirinti
dell’anima, decifrarne i contorni, toccarne i limiti.
Se la terapia è volontaria, l’arte al contrario è
terapia involontaria, come suggerisce G. Radice. L’artista non ha in mente di
mettersi in gioco: semplicemente gioca. Non è suo obiettivo liberarsi dalla
sofferenza: esprime la sofferenza. Se pure in questo esprimersi si concretizza
la funzione liberatoria, non c’è intenzionalità nel farlo, né ricerca di consolazione.
L’artista non ha altro fine se non la creazione. Non intende portare alla luce
quello che in lui è irrisolto: semplicemente gli dà vita.
Cambiando prospettiva, leggere un’opera d’arte è come
leggere il sogno di un paziente. In essa si rivela sempre qualcosa che rimane
inconscio al suo autore. Come nella
manifestazione onirica, il sognatore non
comprende ciò che ha messo in scena, riconoscendo solo brandelli di esperienza
che sfumano nella sostanza eterica delle immagini; anche nell’opera artistica
rimangono fissati brevi segni della propria esperienza interiore, spesso non
riconoscibili dall’artista stesso. D’altra parte, se adottiamo il punto di
vista junghiano, l’opera come il sogno fa riferimento a qualcosa di molto più profondo di ciò che
appartiene al piano personale. Essendo luoghi dell’anima, in essi si muovono
gli archetipi, simboli e metafore del nostro inconscio collettivo con il quale
entriamo in contatto solo abbandonando il controllo della coscienza egoica,
della ragione e della volontà. Superando
questi limiti, artista e sognatore si avventurano nel territorio dell’immaginario,
operando quella dislocazione dell’io
soggettivo dal consueto allo straordinario, liberando
la creatività dagli angusti territori delle regole della natura e della
cultura, restituendo alla mente la sua capacità visionaria. E’ in questo
territorio che sia l’Arte che la Terapia si riappropriano della Bellezza,
intesa non come categoria estetica, ma come espressività dell’anima e della sua
capacità di trasformare l’ordinario in
straordinario (non era questa l’intenzione della pop-art? si chiede Hillman)
. Per
dirla ancora con Hillman, è questo il compito dell’artista, com’ è anche questo
il compito del terapeuta che nelle
esperienze ordinarie del suo paziente , nei suoi quotidiani smarrimenti, cerca
di rintracciare senso e bellezza.
Così si esprime Hillman:
“L’opera
d’arte consente a distretti repressi del mondo e dell’anima di abbandonare la
bruttezza e di entrare nella bellezza.”
Arte e terapia infatti ripercorrono la via alchemica
dell’opus contra natura: trasformazione
da ciò che è naturale in artificiale , riplasmando emozioni, rielaborando idee,
ribaltando convinzioni. Così come l’arte non è mai copia della realtà,
anche la terapia non è mai ricostruzione della realtà. Entrambe necessitano di
“artificio” , di sacrificio, di elaborazione per andare oltre le vicende
personali e toccare l’essenza dell’esperienza umana che, proprio in quanto
umana, non è solo soggettiva e particolare, ma universale e collettiva.
E’ in questo lavoro , d’altro canto , che l’artista
come il paziente compie il proprio percorso di individuazione, emancipandosi da maestri e terapeuti,
così come dalle pressioni del collettivo, affermando la propria individualità e
il proprio stile, elementi fondamentali di ogni strada di realizzazione
personale.
Per concludere, c’è un’altra analogia che vorrei
richiamare : se l’una e l’altra sono strade per raggiungere e rivelare il più
profondo sé , ambedue condividono quello che in oriente è la via dello Zen. Riporto per intero le parole di Suzuki, alle quali non c'è certamente niente da aggiungere:
“ Lo zen,
nella sua essenza, è l’arte di vedere in profondità nella natura dell’essere di
un individuo, ed esso addita la strada che conduce dalla schiavitù alla
libertà…Si può dire che lo Zen liberi tutte le energie propriamente e
naturalmente racchiuse in ognuno di noi, le quali, in circostanze ordinarie, sono
compresse e distorte al punto di non trovare uno sbocco adeguato alla loro
estrinsecazione….E’ compito dello Zen, pertanto, salvarci dalla follia o dalla
menomazione.”
James Hillman : La
politica della bellezza, Moretti e Vitali
Giuseppina Radice : L’Arte e il tiro con l’arco, Prova
d’Autore
Lilia Di Rosa: H.Murakami, l’opera: un viaggio di individuazione, Recensioni e commenti su http://liliadirosa.blogspot.it/
Fromm, Suzuki, De Martino: Psicoanalisi e Buddismo Zen, Astrolabio
Fromm, Suzuki, De Martino: Psicoanalisi e Buddismo Zen, Astrolabio
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