domenica 30 ottobre 2011

L'ultima intervista rilasciata da J.Hillman

La Stampa del 29 Ottobre pubblica questa straordinaria intervista di J.Hillman , raccolta al suo capezzale da Silvia Ronchey.
E' la finale testimonianza di come la consapevolezza della Vita confini necessariamente con quella della Morte. James ci entra "ad occhi aperti", con la lucidità e la profondità con cui ha attraversato tutta la sua esperienza di vita.
La riporto per intero:

            "Sto morendo ma non potrei essere più impegnato a vivere"


Così aveva scritto, nella sua ultima mail. E così l'ho trovato, quando sono andata a salutarlo per l'ultima volta nella sua casa di Thompson, nel Connecticut, pochi giorni prima che morisse: il fantasma di se stesso, ma incredibilmente vitale; il corpo fisico ridotto al minimo, quasi mummificato, tutto testa, pura volontà pensante. Restare pensante era la sua scommessa, la sua sfida. Per questo aveva ridotto al minimo la morfina, a prezzo di un'atroce sofferenza sopportata con quella che gli antichi stoici chiamavano apatheia: un apparente distacco dalla paura e dal dolore che traduceva in realtà un calarsi più profondo in quelle emozioni. L'unica cosa che contava era analizzare istante dopo istante se stesso e quindi la morte come atto oltre che nella sua essenza. Se Steve Jobs, morendo, ha lasciato detto «stay hungry, stay foolish», l'ultimo insegnamento di James Hillman può riassumersi così: «Resta pensante» fino all'ultima soglia dell'essere
Il tempo qui sembra fermo, le lancette puntate sull'essenza ultima.


«Oh, sì. Morire è l'essenza della vita».

Com'è morire?
«Uno svuotamento. Si comincia svuotandosi. Ma, si potrebbe chiedere, che cos'è o dov'è il vuoto? Il vuoto è nella perdita. E che cosa si perde? Io non ho “perso” nel senso comune di “perdere”. Non c'è perdita in quel senso. C'è la fine dell'ambizione. La fine di ciò che si chiede a se stessi. E' molto importante. Non si chiede più niente a se stessi. Si comincia a svuotarsi degli obblighi e dei vincoli, delle necessità che si pensavano importanti. E quando queste cose cominciano a sparire, resta un'enorme quantità di tempo. E poi scivola via anche il tempo. E si vive senza tempo. Che ore sono? Le nove e mezza. Di mattina o di sera? Non lo so».

E' una condizione perseguita dai mistici.
«Oh sì, dall'induismo per esempio, gli induisti ne scrivono. Ma in questo caso è tutto unwillkürlich, involontario. E' accidentale».

Comunque non credo non ti sia rimasta nessuna ambizione.«Davvero?» [Apre di scatto gli occhi finora socchiusi, con un lampo azzurro di sfida.]

Ti resta quella degli antichi romani: lasciare il tuo pensiero ai posteri.
«E' vero. E' molto importante per me che il mio pensiero rimanga. Ma la parola posteri mi rimanda a postea, a un dopo, a un futuro, in cui non voglio essere trasportato adesso».

Perché esisti solo al presente.
«Sì, e voglio tenere chiusa la porta con il cartellino “Exitus”. La potrò aprire a un certo punto, quando capirò come farlo nel modo giusto. [Tenta di scuotere il capo, ma il dolore lo ferma]. Non saprei ora come aprire quella porta senza che ne dilaghi una folla di creaturine che vogliono qualcosa. Molti degli antichi filosofi ne sono stati catturati, probabilmente tu sai chi lo è stato più degli altri. Io non voglio. Il mio compito è dialogare e tenere il dialogo aperto su quel che accade momento per momento. Il mio è piuttosto un reportage. Dal vivo. Dal vero»

Non potrebbe essere altrimenti: o non fai il reportage - come la maggior parte di chi si trova nella tua condizione - oppure ciò che riferisci è la verità. E penso che tutti siano affamati di questa verità.
«Tutti sono affamati di morte. La nostra cultura lo è. Io, qui, come vedi, ne parlo continuamente. Ma non la esprimo. Perché nella morte io sono impegnato. Non voglio uscirne, per esprimerla, per vederla o guardarla in trasparenza. Non cerco di formularla. Ogni tanto si realizza qualcosa che mi porta in un altro luogo dal quale posso osservarla. Magari anche di riflesso. Ogni sorta di cose si riflettono in questa introspezione, ma non l'attività essenziale di ciò in cui sono impegnato [ossia l'atto del morire]. Il tempo che mi dò è il qui e ora».
Capisco
«E' molto importante ciò che semplicemente il giorno ci dà, ogni singola cosa che si realizza durante il giorno. La persona, l'osservazione che ha fatto, l'odore dell'aria in quel momento. E queste cose hanno bisogno di accettazione, di ricognizione, di riconoscimento... Adesso non ho ancora la parola giusta. Ma trovare le parole è magnifico. Trovare la parola giusta è così importante. Le parole sono come cuscini: quando sono disposte nel modo giusto alleviano il dolore».

E il dialogo aiuta a trovarle?
«Sì, e mi rende così felice. Sai, da qualche tempo le persone vengono da me come se avvertissero in me il richiamo di quel vuoto di cui parlavo. Se io non fossi così vuoto, non verrebbero».

Come un risucchio che attira.
«Dev'essere così».

O una condizione di saggezza?
«No. Una calamita. Cercano qualcosa cui attaccarsi. Vogliono qualcosa, ed è la mia capacità di cristallizzare e formulare. Due parole che sono usate per una delle ultime fasi dell'alchimia. Cristallizzazione e formulazione. Le persone sono in pessima forma di questi tempi, il mondo è in pessima forma. E in qualche modo il mio avere trovato qualche solidità li attrae.

Ma non parlavi di vuoto?
«Sì. Il mio stato di svuotamento esprime qualcosa che non avevo finora realizzato e che può riassumersi nella parola coagulatio. Due princìpi governano tutti i processi alchemici: la coagulatio e la dissolutio. Coagulatio in alchimia significa rapprendersi in un punto, diventare più solidi, più definiti, formati, dotati di morphe. Ora l'intero processo che sto attraversando è la coagulazione della mia vita nel tempo. Ma la coagulatio è sempre seguita dalla dissolutio. Che è esattamente il contrario: dissoluzione, le cose che si separano, si sciolgono, perdono la loro capacità di definirsi. La cosa interessante è che improvvisamente questo spiega i miei sintomi. Non faccio che pensare, morbosamente, che sto affondando sempre di più, che mi sto dissolvendo. Ma le due cose, dissoluzione e coagulazione, sono inscindibili. Non è fantastico? Non ci avevo riflettuto finché non mi è venuta per la prima volta in mente la coagulatio. E la rubefactio, che permette alla bellezza di mostrarsi. Così ora sono una persona diversa. Non avevo mai percepito queste cose dentro di me. O non le avevo mai riconosciute. Prima, non avevo mai saputo chi ero».

Da dove viene questa consapevolezza?
«Oh, decisamente dal morire».

Ti dici «impegnato nel morire». Vuoi arrivare alla morte in piena consapevolezza. Ma, come diceva Epicuro cercando di spiegare perché non bisogna averne paura, «se ci sei tu non c'è la morte, e se c'è la morte non ci sei tu». «Esatto».

Mi sto domandando se allora questo tuo morire non sia un'intensificazione del vivere. «Assolutamente sì, non c'è il minimo dubbio. Quando la morte è così vicina la vita cresce, si esalta. Ne sono certo. Ma non vorrei essere presuntuoso».

In che senso?«Orgoglio, arroganza, hybris: attenzione a non peccare contro gli dèi. Mai, in nessuna occasione».

Certo, ma non credo che la tua sia hybris. Credo sia puro coraggio affrontare la morte a occhi aperti. E' raro, ed è per questo che il tuo reportage è così prezioso.«E' prezioso, sì. Mi sto rendendo conto di qualcosa che non avevo mai realizzato prima. Ha a che fare con un certo argomento di cui Margot ed io dovremo parlare prima, una certa decisione che io potrei prendere. Sai, nel mondo di oggi mi è consentito, come lo sarebbe stato nel mondo greco».
Capisco a cosa alludi.
«Ma il punto è che dovrei mettermi nelle loro mani, e sarebbero loro a decidere. In qualche modo io sarei il loro strumento, non loro il mio. Intendiamoci, lo spero. Ma sarebbero loro a informarmi quand'è il mio momento. Oppure potrei prenderlo nelle mie mani, che sono lo strumento classico: la mano [Hillman fa il gesto di trafiggersi il petto], o la vasca da bagno, come Petronio. Ma il fatto è che l'intera cerimonia - perché la definirei così - non è ancora lontanamente immaginabile. O meglio, l'idea è immaginabile, dato che ne sto parlando ora. Ma c'è un'altra idea, sempre antica, che in qualche modo contrasta. Primum nil nocere. Primo, non fare del male. [Si tratta del giuramento di Ippocrate.]

E allora, qual è la decisione migliore? che ne pensi?
Gli antichi stoici dicevano, a proposito del suicidio: “C'è del fumo in casa? Se non è troppo resto, se è troppo esco. Bisogna ricordarsi che la porta è sempre aperta”. Evidentemente, la tua casa non è ancora piena di fumo. Quando lo sarà, lo sentirai.
«Riuscirò a sentirlo?»

Forse ti sentirai confuso. Quello che so è che ora stai respirando, non c'è fumo nel tuo cervello, nella tua psiche, nella tua anima. Quando ci sarà, forse prenderai in considerazione il suggerimento degli stoici. Non sei forse un pagano? non hai allenato per tutta la vita il tuo istinto a percepire le epifanie degli dèi?
«Oh sì che sono un pagano. E' questo il punto».

E' pagana anche la tua percezione della bellezza, del grande teatro verde della natura che hai scelto per questa tua ars moriendi, questa tua arte pagana del morire che è anche, o anzi è soprattutto un'arte estrema del vivere.«Non mi piace definirla un'ars moriendi. E' piuttosto un'arte dello stare in prossimità dell'essere, tenersi più stretti possibili a ciò che è».


 


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venerdì 28 ottobre 2011

Addio, James Hillman

venerdì 28 ottobre 2011


La morte di un grande Maestro

J.Hillmann è stata una delle più importanti voci della  Psicologia Analitica, dopo C.G. Jung.
Per la mia storia personale e professionale le sue opere  sono state una indimenticabile e  appassionante lettura per  la modernità del suo pensiero e la profondità delle sue riflessioni.
Avere avuto  l'occasione di incontarlo personalmente per il suo ottantesimo compleanno , festeggiato qui a Catania  con gli amici e i  colleghi dell'associazione Crocevia di cui faccio parte, in occasione dell' uscita editoriale "Caro Diario"  di R.Mondo e L.Turinese ( 25 scambi epistolari con J.Hillman),  ha aggiunto nella mia memoria alla conoscenza del suo pensiero, il fascino e l'eleganza della sua figura.
Di quell'incontro voglio ricordare le mie impressioni nel commento che scrissi allora , per salutare ancora quel "bravo, bravo ragazzo", quell'indimenticabile e anticonformista  cantore dell'Olimpo che ha lasciato nell'Anima del mondo e nella cultura psicologica un patrimonio di immensa ricchezza e poesia.


Gli 80 anni di Hillman a Catania
Nella primavera siciliana, ancora instabile ed imprevedibile, dentro la cornice barocca di una città vulcanica , focosa e nera come Catania, in una terrazza affacciata sulle cupole del centro storico tra le quali scorgere in lontananza il mare, un magnifico vecchio proveniente dall’altra parte dell’oceano, insieme alla sua famiglia molto americana , si è lasciato festeggiare, corteggiare, applaudire in occasione dei suoi 80 anni. I suoi appassionati cultori, studiosi, ammiratori non gli hanno risparmiato nulla del classico rituale di ogni ragguardevole compleanno: doni, ospitalità, banchetto e canto propiziatorio perché effettivamente lui, ad ottant’anni, è veramente un bravo, bravo ragazzo.
La festa, organizzata in suo onore dall’ Associazione culturale Crocevia, è cominciata nel primo pomeriggio quando, nell’aula dei Benedettini dove già una volta la nostra città aveva avuto il piacere di ascoltarlo, una folla di estimatori si è numerosamente raccolta per incontrarlo ancora, ascoltarlo ancora. Anche se, questa volta, è stato lui ad ascoltare i presenti e non senza una certa delusione da parte di chi si aspettava dal grande vecchio altri stimoli, altre emozioni, altre imprevedibili considerazioni. Invece Lui, con ineffabile sorriso, a metà tra il compiaciuto e il meravigliato, un po’ stupito un po’ divertito, ha accolto le manifestazioni di quanti hanno voluto esprimergli il riconoscimento del suo lavoro, della sua opera, della sua intelligenza: Riccardo Mondo, innanzi tutto, artefice dell’incontro; il Sindaco di Catania che, con l’ufficiale banda tricolore ha salutato l’evento nella consapevolezza dell’importanza dello stesso per la sua città; incontro che fra l’altro – come preannunciato in quella medesima occasione – segna la nascita del nuovo Istituto Mediterraneo di Psicologia Archetipica il cui Presidente Onorario è proprio James Hillman.
E poi gli altri, studiosi, lettori del mondo psicologico e analitico come di altre discipline che, a partire dal nostro presidente Fulvio Giardina hanno voluto sottolineare il grande contributo che l’opera hillmaniana ha fornito alla contemporanea comunità degli psicologi, attraverso la potenza delle sue immagini e l’acutezza della sua critica.
Luciano Perez, psicologo analista del Cipa, ne ha richiamato l’importanza per la continuazione e la riflessione sull’opera del grande Maestro, dal cui terreno si inoltra innovativamente un pensiero libero da schemi preordinati, ma che affonda nel cuore della complessità junghiana, irritando spesso i suoi seguaci più ortodossi, e contemporaneamente incantandoli. In questa festa nella ex Magna Grecia, così viva nelle opere di questo autore, con i suoi dei e le sue mitiche figure, non è mancata nemmeno la lingua originaria, il greco antico per l’appunto, che Lucia Arsì – umanista socia di Crocevia, ha voluto richiamare leggendo in lingua alcuni brani scelti da Epicarmo, Plotino , ed altri ancora.
Non sono mancati gli illustri assenti, come Franco Battiato, autore di un ormai noto ritratto di James Hillman, che, atteso fino all’ultimo al dibattito, non ha rinunciato più tardi a porgergli i saluti brindando insieme a lui al valore dell’arte e alla libertà della conoscenza.
Le conclusioni di questo particolarissimo incontro le ha tirate Luigi Turinese, medico omeopata e psicologo analista dell’Aipa, curatore insieme a Riccardo Mondo del più volte citato Caro Hillman: uno dei due gentiluomini siciliani che con la cornucopia carica di doni ha contribuito a tessere questo legame affettivo e culturale capace di superare l’oceano, le distanze geografiche e storiche, gli steccati ideologici, per riportare qui tra noi il più attuale e anticonformista cantore dell’Olimpo.

Pubblicato in Psicologi & Psicologia in Sicilia, anno IX, n° 4, ottobre 2006

giovedì 13 ottobre 2011

L'amore che resta

di Gus Van Sant ,  2011


L'adolescenza è un'età difficile malgrado nell'immaginario collettivo sia la più desiderabile. Gus Van Sant ne ha  già accostato gli aspetti d'Ombra  in altri film:  Elephant 2003, sul tema della violenza e dell'aggressività: Paranoid Park 2007 sulla tematica della colpa. Qui la investiga nella sua relazione con la morte, con la malattia , con la sofferenza.  Ecco cosa mi ha sollecitato la visione del suo ultimo film.

Gus Van Sant guarda le cose da vicino, con l’obiettivo puntato in modo tale da tagliare alcune parti di ciò che riprende, quasi a volere entrare dentro ciò in cui si sta concentrando, indifferente a quello che non è veramente importante. Qui è dentro la testa di due adolescenti che cerca di entrare, due adolescenti particolari, ambedue toccati dalla morte malgrado la loro giovane età e che,  proprio per questo,  piuttosto che fuggirla ne sono attratti, tentando di scoprirne la natura, di percepirne la vastità mentre sono nel pieno della vita. E lo fa con delicatezza, con levità, facendo sorridere malgrado la tragicità del tema, sul quale per lo più si tende a sorvolare o a mistificare, o al contrario a drammatizzare ed esasperare.

Il “fantasma” giapponese, un kamikaze qui  alter ego del giovane  Enoch , segnato dalla morte dei genitori in un incidente d’auto dal quale si è “sfortunatamente” salvato dopo tre mesi di coma,  e ora innamorato di Annabel, ammalata di cancro, è determinante per il dialogo che prende forma  nella fragile psiche del protagonista. Attraversato dall’abbandono e dalla rabbia, già esposto al dolore di una  nuova perdita, non rinuncerà a conoscere l’amore, a condividere la speranza per un altrove che non c’è, riuscendo infine  ad accettare ciò che non si può evitare.

Dall’altra parte c’è lei, appassionata studiosa delle teorie darwiniane e di scienze naturali ,  sorridente davanti a quel passaggio necessario a mantenere  l’equilibrio generale della natura,  che lo inizierà alla sessualità e  alla  breve ma intensa felicità che la vita regala  pur nella consapevolezza dell’inevitabile distacco.

Un film delicato, struggente, trattato attraverso la bizzarria e la spontaneità della giovinezza, denso di misurata malinconia, un po’ gioco un po’ sofferenza .

venerdì 7 ottobre 2011

Progetto Alzheimer


Dal primo Ottobre 2011 è attivo presso l’Unità  Operativa di Neurologia in collaborazione con il Servizio di Psicologia del Presidio  Garibaldi-Centro il
     

                                                  Centro Ascolto Psicologico
                                        
                                                   Tutti i venerdì dalle ore 10 alle 13
                                                               Tel.095 7594221


Il  centro-ascolto è dedicato ai familiari dei pazienti affetti da Alzheimer che vogliano utilizzare l’intervento psicologico per un adeguato sostegno emotivo, accrescendo le proprie risorse personali in funzione di un compito difficile e stressante .
La finalità è quella di costituire un gruppo  tra persone coinvolte nelle stesse problematiche in presenza di un esperto  al fine di orientare verso un percorso psicoterapeutico individuale e/o di gruppo.
La metodologia di intervento comincia con la richiesta telefonica ( chiamata al centro ascolto) per svilupparsi con colloqui di Assessment  per l’eventuale presa in carico degli stessi.
Incontri  di gruppo con periodicità di una volta ogni 15 giorni.
Incontri psicoeducazionali e informativi di gruppo con periodicità mensile.

Responsabile del progetto :  Lilia Di Rosa  
Collaborano: Danira Grifò, Daniela Russo, Daniela Santocono,Simona Zappalà

mercoledì 5 ottobre 2011

La pelle che abito

P.Almodovar, 2011

Più che mai l'inquietante film di Pedro Almodovar attualmente nelle sale ha stimolato le mie riflessioni a proposito del corpo che abitiamo , oggi così "manipolabile e trasformabile"  grazie agli sviluppi della scienza e della medicina cui  sempre più ci consegniamo, nel bene e nel male.
Ecco il mio commento.

La ricerca estetica curata con maniacale attenzione, la bellezza della vittima protagonista, il gusto mai perduto per l’eccesso, sottolineano e rafforzano la scelta estrema di questa storia sconcertante che solo apparentemente tratta il tema dell’identità.
Direi piuttosto che Almodovar utilizzi qui i suoi preziosi strumenti di regista per illuminare gli eccessi della scienza e il suo delirio di onnipotenza: unico strumento per difendersi dalla incapacità di accettare la perdita e la sofferenza che gli è connessa.
Cosa non può tentare un chirurgo estetico che ha perso la propria donna suicida a seguito di un incidente che l’ha completamente carbonizzata? Come non riuscire a utilizzare il proprio potere e il proprio desiderio di vendetta su colui che ha tentato di stuprare la figlia?
Sappiamo che oggi il progresso scientifico e l’ingegneria genetica dà al medico il potere di modificare la struttura stessa della vita, di “copiarla” , di manipolarla . Se ciò è nelle mani di un uomo ferito e disturbato, la tentazione di usarne gli strumenti per il proprio egocentrismo non ha più limiti, ma diventa il fine della ricerca, la strumentalizzazione massima del proprio sapere.
Ecco cosa ci porta Almodovar in questo film noir come è stato detto, lui così rouge di passionalità ed intensità. Qui il clima è freddo come la pelle che abita il/la protagonista, ingabbiato nel maxischermo di una lussuosa dimora, controllato a vista dalla madre di questo dio /carnefice, abituata alla follia cui lei stessa ha dato vita.
Il film non affronta direttamente la follia di ciò che racconta, ma ne satura l’atmosfera, la porta fuori dai reparti che la ospitano, lontano dai camici bianchi che cercano di contenerla , per distribuirla nella vita, nelle feste , negli ospedali, nelle strade di un mondo irreparabilmente malato.
Questa recensione è pure su
http://www.crocevia.info/la-pelle-che-abito