sabato 28 gennaio 2012

Hermes e la cura

Il mio intervento presentato a Catania, il 28 Gennaio 2012 al Ciclo di Seminari
Mitologie della Psiche , IMPA  www.archeimpa.it

                            MERCURIUS: LO SPIRITO DELL'INCONSCIO


La visione ermetica in ospedale, cioè nel mondo della cura, può essere riconducibile a molti aspetti. Mi vorrei soffermare su due di essi: l’organizzazione nel suo insieme, e la relazione medico paziente.

Due facce imprescindibili del mondo sanitario, l’uno che dà indirizzi, ne fissa i programmi e le finalità; l’altra che li mette in atto , li concretizza nella operatività quotidiana delle corsie e degli ambulatori. L’uno il piano dello “spirito”, l’altro querllo della pratica.  In questo luogo, cosa può farci un dio? Ma più esattamente dov’è il dio Hermes, su che cosa regna,  che doni offre?

                       Sarai il dio dei ladri, dell'inganno e della finzione.”

  Disse Zeus al bimbo appena nato, questi saranno i tuoi doni

“E sarai il mio messaggero, se prometti che non racconterai mai bugie”.
“Lo prometto, padre, purché non mi obblighi a dire tutta la verità. Ci dev’essere spazio per la fantasia.”
Zeus rise di nuovo e assentì col capo. Quindi diede al nuovo dio il caduceo, una verga di araldo ornata di nastri bianchi. Gli diede anche calzari alati perché potesse muoversi con la velocità del pensiero. E lo chiamò Ermes. 



Quindi messaggero degli dei, da un lato;  signore dell’inganno dall’altro. Hermes: il messaggero, Hermes l’ingannatore.

Se penso a ciò che accade quotidianamente durante il mio lavoro in ospedale, ritengo che Hermes ci abiti, più di chiunque  altro. Penso a come sia presente nello spirito generale dell’organizzazione (bugiarda!) volta alla finalità della salute, dell’assistenza umana, della sensibilità psicologica, che in realtà nasconde indifferenza, individualismo, cinismo. Penso a come si sia più interessati alla conservazione dei  ruoli, del prestigio, del guadagno, che non a una effettiva buona pratica sanitaria.

Come i principi etici del rispetto, della sensibilità, siano traditi quotidianamente dagli interessi privati.  Come nella sua identità generale, un ospedale, oggi azienda ospedaliera, il cui fine è  “produrre” salute e benessere, in realtà produca interessi individualistici,  coltivi il narcisismo personale, nell’obiettivo di “guadagnare” attraverso il male altrui soldi, carriera, prestigio . Come il malato,  “l’utente” cui si rivolge sia  l’ultimo anello funzionale di un sistema orientato a scopi utilitaristici.
L’inganno quindi, l’utilizzazione di principi etici ed umani per  fini personalistici ed economici, sembra regnare nei sotterranei dell’organizzazione sanitaria volta al “bene” collettivo, alla salute pubblica: “quando siamo apollinei negli ideali, Ermes nel suo aspetto più oscuro non è lontano” (afferma Hillman nel suo Saggi sul puer ) e continua “insieme ( essendo fratelli) fanno davvero una bella coppia: il bagliore dorato dei nobili fini raggiunti con l’astuzia e con l’inganno”.

Scusate se sono partita dagli aspetti più degeneri della organizzazione sanitaria  (parlerò anche degli aspetti positivi) dove l’archetipo Hermes sembra soggiornare con astuzia infinita. Penso a come , dietro i programmi sanitari, si muovano  interesse privati di case farmaceutiche , industrie medicali… ecc. Grandi interessi finanziari operano dietro gli impianti di pace-makers, stent, protesi . Tutti certamente indispensabili in alcuni casi, ma molto spesso  anche abusati, sperperati, sulla pelle del malato….

Non intendo qui parlare della mala sanità, ma di  come , nella buona sanità, la presenza di Hermes si ritrovi in tutti gli aspetti manipolatori, ambigui e duplici dei suoi presupposti di fondo.

L’economia di un ospedale è fondata sugli aspetti di guadagno, di affari, di utili. Il paziente è lo strumento indispensabile di tutto un apparato lucrativo.  Per non parlare degli aspetti di ricerca: pensiamo a quanti protocolli di sperimentazione di nuovi farmaci, di nuove tecniche, ecc ecc, passano pressoché quotidianamente dagli ambulatori, per poi immettere nel mercato quello o quell’altro rimedio o presidio chirurgica ecc ecc.

Ma siamo sicuri che tutto questo abbia la finalità “etica ” di curare il malato e le malattie??

E da qui, passiamo subito all’altro punto, alla cura in senso stretto, a ciò che accade tra il medico e l’ammalato nella relazione terapeutica.

Vado all’Hermes con il suo bastone: il caduceo è il simbolo della medicina, nel segno di Ippocrate. Esso rappresenta gli opposti, così come il “farmaco” ha contemporaneamente  il significato di rimedio e di veleno.

La cura infatti ha  sempre come  proprio obiettivo il riequilibrio delle energie positive e negative della persona malata: ma tutti sappiamo che non è mai un processo indolore, al contrario l’ambivalenza del “farmacon” è presente in ogni forma di cura. E la cura in un ospedale è ben più ampia della semplice somministrazione di un farmaco. La cura è trovare la strada giusta per quel malato, è l’intuizione di mettere insieme i segni, i sintomi
per arrivare a una certa diagnosi, a un  vedere”  ciò che si nasconde dietro, “sentire ciò che vi si nasconde”  citando ancora  Hillman  .

 In un pronto soccorso ad esempio, è necessario  avere un lampo  di genio, di intuizione e di lucidità  per individuare un caso complesso e distinguerlo da uno più semplice, è necessaria una decisione rapida: lo spirito ermetico è situazionale, legato al momento. E’ questa la prospettiva produttiva e positiva dell’atteggiamento mercuriale, del suo “opportunismo”. Il suo sapere è un Non-sapere,  una capacità che si fa avanti nel momento giusto.

Il “Tempo” in casi come quelli che si presentano in ospedale è una dimensione fondamentale: forse quella in cui più di ogni altra si sostanzia l’azione medica.

Entro ancora meglio nella relazione medico-paziente: ogni relazione è una “situazione” nella quale sono coinvolte due persone, in quel determinato momento, per una determinata ragione, molto spesso per caso.  Il medico, così come il terapeuta deve “afferrare” l’altro e la sua malattia, deve sapere portare il paziente da una riva all’ altra, trasportarlo oltre la realtà di quel momento. Ermes lo psicopompo, è colui che guida nel regno dei morti, è presente sempre nell’oltrepassare una soglia. E’ al limite, dove è necessario non restare fermi, ma essere coscienti di ciò che accade e di ciò che può accadere. La funzione psicologica dell’archetipo Hermes è quindi fondamentale nel regno della cura, laddove è necessario l’agire immediato, la decisione rapida, l’attraversare un possibilità spesso non certa, ma talora fortunata e sempre legata alle forze in campo di quel dato momento .

Il medico come  Psicopompo si trova spesso in quelle situazioni di “terminalità” nelle quali la cura è in realtà un accompagnamento: relazioni molto complesse nelle quali entrambi (Medico- Paziente)  sanno bene che non c’è più possibilità di soluzione.

L’incurabilità, la non –curabilità,  porta talora a relazioni dai tempi lunghi, imprevedibili, ad attese spesso esasperanti  durante le quali la funzione del medico è semplicemente un esserci,  giorno per giorno, con lo sguardo vigile, l’ascolto attento,  “ancora e ancora”, come un giorno mi disse negli ultimi giorni della sua vita un giovane in Aids.  Eppure, in questo caso, il dio ci dà la capacità di assistere ed accompagnare questo difficile attraversamento. E’ l’ accompagnare una trasformazione della coscienza che , se è vero che si fa sempre più necessaria nell’avvicinamento al limite estremo, è pure vero che è sempre presente in ogni esperienza di malattia. Pertanto Hermes, guardiano della soglia, ispira l’intervento di aiuto che spesso in ospedale è veramente una discesa agli inferi.

Ogni esperienza di malattia  infatti, porta con sé la morte di qualcosa, l’abbandono di un certo equilibrio, la necessità di operare un cambiamento nelle abitudini,  nello stile di vita, in ogni caso una presa di coscienza del cambiamento talora terribile che ci aspetta.
Hermes, ci dà la forza giusta per aiutare il paziente a operare questa trasformazione. Egli può “recare i messaggi di qualunque Dio, …”citando ancora Hillman,  aiutandoci a trovare la strada giusta attraverso le più anguste situazioni.

E’ questa la funzione ermetica dello psicopompo, che certamente tutte le persone che si dedicano alle relazioni di aiuto possiedono e devono possedere.

Quando le situazioni si fanno oscure, difficili e senza apparenti vie di uscita, ecco che il bagliore della coscienza ermetica , il suo intuito, la sua capacità di operare connessioni, ci indicherà cosa fare….cosa dire.

Perché Hermes è “logos”: ragione, parola. E quale migliore strumento ha il medico che non sia la “buona” parola: la parola intelligente, appropriata in ogni situazione. Anche se bugiarda,  tutti sappiamo che  la Parola   più di ogni altro farmaco “cura”, in quanto parola significa instaurare una relazione, significa sapere ascoltare e sapere rispondere. Hermes, il dio degli oratori, trova il modo giusto per raggiungere l’animo di chi necessita  aiuto nelle scelte , conforto ai suoi mali, aprendo loro la speranza o anche  l’ illusione .

Ci deve essere spazio per la fantasia”…  dice Hermes al Padre.

E a volte il malato ha bisogno proprio di questo.

 Pubblicato su:
www.babelenews.net   N.14
 "Mitologie della psiche", pag 17


             









mercoledì 25 gennaio 2012

A proposito di J.Hillman

In occasione della commemorazione del grande J.Hillman, deceduto il 27 Ottobre 2011, voglio inserire qui questo mio studio su una delle sue più illuminanti opere,  “Revisione della Psicologia”  presentata al ciclo di seminari dell' Associazione culturale Crocevia  , nel Maggio 2005


                      IV Parte  : Disumanizzazione  e fare anima

                                              Il mondo infuso d’Anima


Per cominciare il mio discorso su quest’ultima parte di Revisione, sperando di potere concludere in  modo che tutto quanto è  stato già detto trovi una forma finale nell’immaginazione di ognuno, comincerò dalla mia immaginazione, perché non vi è dubbio che tutto quello che dirò è pur sempre filtrato dalla mia visione del pensiero di Hillman, delle sue parole, e dai sentimenti ed emozioni che le stesse hanno in me suscitato. Per quanto lo studio ha richiesto l’uso di tutte le mie facoltà razionali, l’aderenza al testo mi ha naturalmente imposto di mettere in opera anche la mia coscienza immaginale e quindi di fare anima.

Innanzi tutto, quello che mi ha colpito rileggendo il testo nel suo intero, è il rintracciarvi una sorta di cammino interno ( che non avevo notato nelle mie precedenti letture) , - si può accostare ad una partitura musicale, ad un copione teatrale , o forse anche all’opera pittorica di  Bosch o  alla prospettiva multipla di  Escher - : a me è apparso - in senso più filosofico -  una sorta di percorso che va dal particolare al generale , dall’uomo singolo all’uomo cosmico, dal personale al trans-personale, all’oltreumano o,  per dirla con parole più propriamente hillmaniane, dalla personalizzazione alla dis- umanizzazione. Questo è il cammino di pensiero che segue Hillman per presentare la sua psicologia  centrata sull’anima e non sull’uomo.

La visione complessiva dell’opera che stiamo esaminando (  e della quale mi è stato dato il compito di  commentare l’ultima parte ) mi fa intendere la  psicologia del fare anima come  una  psicologia del percorrere le profondità dell’Anima, di un incedere incessante tra le sue  diverse manifestazioni , spesso distorte e incomprensibili, immense e indecifrabili:  siamo sempre in terapia – sostiene Hillman-  nel senso che abitati dall’anima , toccati da essa, attraversati da essa, possiamo trasformare gli eventi in esperienze significative per la nostra vita interiore  e pertanto ogni vicenda, esterna e interna insieme , ci consente di attivare un processo di conoscenza di noi stessi e del mondo.  Processo che è possibile sempre anche attraverso le nostre malattie e le nostre patologizzazioni, come  ampiamente dibattuto nella seconda parte di quest’opera, in quanto anche i nostri sintomi ci consentono di guardare oltre , di vedere in essi  espressioni dell’anima. In questo senso  Hillman  si è espresso in modo decisamente critico verso tutte quelle forme (le più varie) di negazione o di rimozione della patologia, compresa  la terapia psicologica  intesa come pratica professionale, attribuendo ad essa il pericolo dell’abuso della patologizzazione, sostanzialmente trasformatasi in nuova religione  e nella quale l’asimmetria e la scissione dell’archetipo del Guaritore ferito conduce alla definizione negativa del sintomo da curare con un “trattamento”.

IL suo obiettivo è…liberare l’anima dal suo stato di alienazione nella terapia professionale fino a che non disponiamo di una visione della patologizzazione che, per cominciare, non necessiti di trattamento professionale.( pag.147)  Con  questa prospettiva , ripeto,  tutto ciò che ci accade  ( e qui si intende gli accadimenti della vita di ciascuno di noi, dai più semplici ai più complessi, fino ai più spaventosi)  poichè mette in moto profonde energie, potenze affettive,  immaginazioni mitiche, sentimenti primitivi, ci offre l’occasione di affacciare  il nostro sguardo immaginativo sulle vicende dell’anima  che sempre vanno  oltre il mero piano personale ( che è poi   il piano dell’Io) per  coglierne il significato più profondo. In una delle sue risposta nel recente epistolario curato da R.M. e L.T.  Hillman chiama la sua psicologia un “aprire le ostriche e pulire le perle, cioè recuperare e portare alla luce e indossare quotidianamente la vita dell’immaginazione, che non può redimere la tragedia, non lenire la sofferenza, ma può arricchirle e renderle più tollerabili, interessanti e preziose.”

   Torniamo dunque ad  Anima e alle sue numerose incarnazioni che via via vanno prendendo dimora  dentro di noi attraverso le vicissitudini quotidiane e con le quali possiamo intrattenerci immaginativamente,  accoglierle,  piuttosto che spiegarle, rimuoverle, interpretarle.  Anima –abbiamo detto-  è personificazione dell’inconscio, così come  sentimento di interiorità personale:  personalizza l’esistenza individuale, le dà valore. E ancora  “ incarna l’attività riflessiva, reattiva e speculare della coscienza. Sotto il profilo funzionale……opera come il complesso che mette in rapporto la nostra usuale coscienza con l’immaginazione…… ,essa è in pari tempo il ponte verso l’immaginale e l’altra sponda.”  (Pag.95 -96 idem).

….. “un individuo privo della sua figura d’anima non è un essere umano: E’ uno che ha perduto anima”

Perdere l’anima è per Hillman l’incapacità o l’impossibilità o il rifiuto ad entrare in contatto con la propria coscienza immaginale attraverso gli accadimenti interiori che, se è vero che costituiscono la nostra più profonda meità, sono anche il ponte per trascenderla. Poiché l’anima abita dentro di noi, ma anche fuori di noi, là, nel mondo. Ci preesiste e ci oltrepassa,  anche se ognuno di noi può conoscerla solo attraverso la propria esperienza personale, attraverso quel “coefficiente personale” che ci consente di entrare in contatto con la sua vastità.   Perché – come più volte ripetuto – non l’anima abita in noi, ma noi in essa. E se è vero che possiamo incontrarla nei nostri sogni come nei nostri sintomi,  nelle nostre immaginazioni  come nella nostra carne, tra le nostre più intime emozioni, sensazioni, dolori,  è pure vero che essa è fuori di noi,  ai confini della nostra soggettività, oltre l’Io e oltre il me.

E’ questo “andare al di là dei confini del me” l’oggetto di analisi dell’ultima parte di questa   re-visione della psicologia che Hillman propone, del suo modo di intenderla,  restituendole la sua più  intima essenza, per l’appunto l’Anima; e alla quale intende dare un solo obbligo: il vedere in trasparenza, il prendersene cura, il renderle  servizio.  Per far questo è necessario andare oltre l’Io e oltre il Sé, ed entrare in connessione con le forze che muovono non solo i nostri sintomi e le nostre afflizioni , ma  l’universo intero, e  che per quanto  intrecciano, animano  e sostengono le nostre esperienze personali,  non sono nostre.

Per farlo, proverò ad elaborare alcune affermazioni sulle quali ho già sostato a lungo con il pensiero e sulle quali intendo riflettere ancora insieme a voi, anche perché, ogni volta che ci torno su, ne intuisco una sfumatura nuova , ne intravedo un’altra forma e non mi appaiono mai come la volta precedente.

Partirò da questa :” L’anima ha estensioni inumane”.

“Estensione” è concetto che si rifà alla spazialità e alla temporalità, ad un contenitore, a dei limiti. Ma la natura dell’Anima non è riconducibile a dei limiti, nè spaziali né temporali: limiti insiti invece nella natura dell’uomo. Se parliamo di anima dobbiamo dunque andare oltre l’uomo.

Per una psicologia che si rifà all’umanesimo, che valorizza al massimo l’esperienza individuale come unico strumento per entrare in contatto con gli archetipi, che promuove il “fare anima”, questa affermazione appare pressocchè paradossale. Tanto più che l’inumano, pur richiamando gli dei come forze che sottendono i nostri impulsi così come le nostre idee, non fa capo ad  una religione. La psicologia archetipica non è una religione. La religione  prende gli dei (o il Dio) alla lettera:li letteralizza. La psicologia archetipica li tratta come figure simboliche, li immagina. Nella prima il rapporto con gli dei avviene attraverso la preghiera , il culto, il rito. Nell’altra è attraverso metodi psicologici quali il personizzare, il patologizzare, lo  psicologizzare. La religione rimanda allo spirito, la psicologia all’anima.  Entrambe però hanno bisogno di una fede. La fede nella realtà dell’anima. E l’anima ha per l’appunto estensioni che travalicano la nostra realtà soggettiva  e che,  pur attraversandoci,  o meglio ancora  transitando noi in essa, non ci appartiene.

Tale presupposto fondamentale , il fatto cioè che  tutto ciò che ci accade è governato da forze che non ci appartengono  perché non  sono umane,  libera almeno in parte le nostre azioni  dalla esclusiva responsabilità personale , proprio in quanto si riconosce che in  esse si muovono forze che vanno al di là di noi.  Riuscire a vedere così le nostre emozioni, se non ci libera ( e non ci libera)  dai travagli personali, ci mostra  dice Hillman  una diversa qualità di esperienza (pag 301).  I litigi in famiglia, gli entusiasmi degli amanti, le esplosioni in ufficio, hanno tutti dei retroterra profondi: epici, tragici o comici che siano, essi sono sempre mitici, incontenibili dalla vita e distanziati da essa.  

Le emozioni  appartengono agli archetipi, i quali agiscono in noi attraverso il centro emotivo del complesso.    Pur facendo strettamente parte della nostra esperienza personale , esse trascendono la storia e il luogo, sono “eterne”, come dice   Roberto Calasso nelle sue Nozze di Cadmo e Armonia, transpersonali, sacre:

……. un’enunciato mitico più che una proprietà umana.

Vorrei fare qui una breve digressione sulla presenza del senso tragico nella visione hillmaniana. Nel corso del dibattito attivato con il recente epistolario cui abbiamo già accennato alcuni  hanno avvertito nella sua opera l’assenza della tragicità, o per lo meno la sua perdita di spessore,  tanto da intravederne in qualche modo i tratti post-moderni ed edulcorati della New Age, oggi molto in voga secondo lo spirito del tempo, che cerca in tutti i modi di trarsi fuori dalla sofferenza superando il conflitto attraverso il recupero del”meraviglioso”.

Non  mi stupisce la reazione di Hillman stesso ad una di queste argomentazioni, tanto da farlo  sobbalzare. In realtà la tragedia  - risponde- è insita nell’anima stessa , e mai nei suoi scritti è rimasta esclusa la presenza delle afflizioni, del dolore, dei travagli: tutte espressioni   necessarie e inevitabili dell’anima. Forse il recuperarne la bellezza attraverso l’immaginazione, renderle espressioni immaginative, turba il senso etico di chi vuole vederla ancora sotto l’aspetto eroico della sconfitta o della vincita. Hillman propone l’attraversamento della vita e l’ accoglimento della tragedia che continuamente  la permea , nei tradimenti come nelle depressioni, nel cattivo seme come nella vecchiaia ( pag.62- 63 di Caro Hillman ), ma non con lo spirito eroico dell’Io combattivo, né con l’attaccamento nostalgico del pessimismo a tutti i costi, né con la fissazione del Senex sulla pesantezza dell’esistere.  Attivare l’immaginazione non  rende  i dolori dell’anima più leggeri, ma li approfondisce  e li immerge nello sfondo mitico dove solo forse possono  trovare un’altro logos e un altro senso al di là della vicenda concreta e personale.  

La psicologia ha sempre trattato il mondo delle emozioni  così come la sua patologia  rimanendo sul fondo personalistico, orientandosi verso la comprensione, la spiegazione, l’interpretazione, e non vi è dubbio che se il nostro fine è medico, cioè appartenente al mondo della cura,  questo modo di procedere  può essere d’aiuto. La terapia clinica ritiene i suoi pazienti responsabili di ciò che accade, li indirizza verso la scelta  migliore, è pertanto legata ancora ad una visione moralistica che presuppone una  capacità di scelta, la volontà di dirigersi verso l’una o l’altra strada.  Ma , in definitiva , anche la scelta si muove secondo  una prospettiva archetipica che privilegia l’uno al posto dell’altro , rimandando alla figura dello Sceglitore o del Riparatore,  soggetto che si pone come centrale  e che esercita la funzione  di scegliere  tra il bene e male. Ecco, Hillman vuole liberare la psicologia dal suo assillo moralistico, per il semplice fatto che anche gli atteggiamenti morali sono incarnati da un dio, e  ogni dio, ossia ogni aspetto della psiche, ha una sua morale. Ermes, come Ares, come Dioniso, hanno la morale relativa al principio che incarnano; così come anche l’amoralità rappresentata dal Briccone, da Caino o da Prometeo ha una sua prospettica archetipica e il suo principio morale.

Il punto di vista archetipico, insomma,  tenta di distogliere completamente la nostra concentrazione  monoculare dalla questione del bene e del male .

Come psicologi dell’anima dobbiamo andare oltre l’umano e il piano personale delle vicende affettive per  concentrarci sull’anima, uscendo fuori da quella “ristretta soggettività umanizzata” cui ogni terapia in qualche modo necessariamente  ci vincola (come sostiene a pag 202 in risposta a Zoia).

Pertanto Hillman , come filosofo e non come  terapeuta, critica duramente l’umanesimo moderno che  centrando il suo universo sull’Io e sulla fantasia monoteistica di una soggettività che sceglie e agisce , ha esaltato fantasie come   l’amore o il perdono o il sentimento : mezzi per giungere ad una presunta unità , redenzione o  superamento.  Tornando un momento indietro, al  suo secondo capitolo (pag.125-126), egli  ha già duramente criticato questa visione idealistica dell’umanesimo moderno , che definisce addirittura delirante, col suo  concentrarsi sull’aspetto più chiaro della natura umana, dove persino la morte diventa dolce, perde la sua ombra, …perché il suo fine è la trascendenza. Per trascenderla essa si lascia alle spalle tutto ciò che è più basso, vile, oscuro, giudicandolo un insieme di valori regressivi. Una psicologia semplicistica, che guarda con occhi innocenti  e che ignora del tutto la visione stoica e tragica dell’uomo esistenziale, irrazionale e patologico ( e in queste parole è forse la risposta più densa a chi gli contesta l’assenza di senso tragico).

Giungiamo allora alla seconda affermazione che consegue a questa analisi e che si compendia nell’enunciato :

La giusta misura del genere umano è l’uomo; quella della psicologia è l’anima”.

 Richiamandosi ancora una volta al Rinascimento, la psicologia  che Hillman  propone , mette al centro l’anima , non l’uomo, operando una distinzione tra psiche ed anima, termini molto spesso usati come equivalenti o sinonimi. Non è semplice cogliere questa differenza .I due termini infatti pur essendo intrinsecamente connessi, non sono identici. Qui vi propongo quella differenza che mi è sembrato di sapere afferrare: l’una (la psiche) è la funzione riflessiva dell’anima, individuale o collettiva che sia,  ha ancora a che fare con l’uomo.  L’altra (l’Anima ),  è indipendente dall’uomo e dalla coscienza che la riflette. La psicologia del Rinascimento - e si badi bene che il termine psicologia viene raramente usato in quei tempi - ci ricorda Hillman - comincia proprio dalla seconda,  dalla rivelazione dell’indipendente realtà dell’anima.  Essa esiste indipendentemente dall’uomo.  Nel Rinascimento la psiche è ovunque: religione, politica, denaro sono aree del riflettere psicologico. Il panpsichismo  è l’espressione filosofica del neoplatonismo al quale il rinascimento ha attinto. Uomo, natura, anima sono  tre termini connessi intimamente, ma l’anima, che è dentro l’uno e dentro l’altra, è anche al di là dell’uno e dell’altra.  Il mondo infuso d’anima è espressione della filosofia dell’immanenza di cui il pensiero di  Ficino  è portatore. L’anima per Ficino “congiunge tutte le cose, è il centro della natura, il termine medio di tutte le cose.” Perciò “il filosofare ficiniano è tutto e solo un invito a vedere con gli occhi dell’anima l’anima delle cose…..una spinta a tuffarsi nelle profondità della propria anima perché nella luce interiore tutto il mondo si faccia più chiaro.” (Pag.338)

Mettere al centro l’anima è una vera e propria rivoluzione in filosofia, in quanto fa sì che ogni pensiero, quindi lo stesso filosofare, abbia una implicazione psicologica,  trovi il suo fondamento nell’anima…..  La filosofia diviene un riflesso di quello che avviene nell’anima.

Questo situare l’anima in posizione centrale, nel pensiero come nella natura , come in qualsiasi esperienza umana , significa che essa regna in e tra tutte le cose , e per questo la filosofia di Ficino è stata chiamata la “filosofia dell’immanenza”.   

Questa visione aveva nel quattrocento un contenuto altamente rivoluzionario, forse solo pari all’impatto della psicoanalisi nel nostro secolo, in quanto le sue affermazioni danno a psiche l’onore di essere non solo oggetto di studio, ma soggetto di studio, annullando di fatto ogni distinzione tra soggetto e oggetto, relativizzando pertanto ogni visione ed ogni prospettiva, ed intaccando la superiorità assoluta della rivelazione cristiana. Questa è di fatto anche la sua modernità se pensiamo che la stessa in-distinzione è il presupposto fondamentale dell’attuale fisica quantistica.

Da questa centralità assegnata all’Anima da Ficino e dal neoplatonismo, così come dalla psicologia archetipica ,è necessario avanzare verso una ulteriore riflessione che mette al  centro la morte in quel particolare legame che essa ha con l’anima:  Persefone ed Ade. Qui la psicologia archetipica sembra inoltrarsi verso un altro paradosso: se Anima è archetipo della vita, come è concepibile questo suo legame con la morte? Questo discendere nelle profondità di Ade come si concilia con l’esaltazione della vita insita in quel suo viverla in profondità?  In realtà mettersi in contatto con Anima significa penetrare nelle profondità umbratili delle nostre riflessioni immaginali che noi attiviamo attraverso ogni esperienza soggettiva, ma contemporaneamente alla morte di  ogni accadimento reale e letterale, proprio  perché ogni accadimento visto con gli occhi di anima cessa di essere reale e diviene immaginale . Dalla prospettiva di Ade, cioè al di là e al di sotto delle nostre vicende umane, quando esse si sono già ritirate o concluse nella vita reale,  esse permangono negli occhi dell’anima e solo allora  diventano veramente reali. Ciò fa dire ad Hillman che

 noi siamo le nostre immagini.

Questa prospettiva , che intimamente  lega  morte e vita ,  riguarda solo l’Anima,  laddove  Morte non è più morte in senso medico, conclusione del ciclo vitale, unica e irreversibile , e Vita non è solo esperienza  letterale , ma sguardo che si inoltra nelle profondità degli inferi  simultaneamente alla vita di ogni giorno, allorché le vicende quotidiane diventano vicende psichiche.

                        Nel regno di Ade esiste solo psiche, tutti gli altri punti di vista                            svaniscono.

 Noi incontriamo Ade tutte le volte in cui i fatti concreti di ogni giorno svaniscono e cadono nelle nostre immaginazioni profonde, oltre il fatto che ha dato loro vita, quando veniamo rapiti dalla nostra coscienza usuale , afferrati e portati  verso il basso nel regno delle nostre emozioni e dei nostri patimenti, nel momento in cui ogni accaduto  assume una prospettiva diversa perché lo vediamo psicologicamente.  Vorrei qui aprire una parentesi a proposito di Pathos: pathos è termine che rimanda al subire qualcosa che proviene dall’esterno : un’offesa come una malattia , una notizia come una visione.  Non  necessariamente deve avere a che fare con la sofferenza, quanto con  qualcosa che ci mette in contatto con la nostra passività e con la nostra impotenza nel momento in cui  qualcosa  ci attraversa con intensità o eccesso.  Ecco: secondo me, questo  patire, guardato in trasparenza,  “attiva “in noi un processo omeopatico che agisce come rimedio  in quanto ci consente  fondamentalmente di non subirlo ma di trasformarlo.  Solo così il pathos cessa di essere solo sofferenza ma luogo dove si attiva lo  sguardo di Persefone, rapita alla sua normalità  e dove le immagini che si risvegliano ci portano nella realtà più intima dell’anima.  

Fino a che non ci risvegliamo a questa realtà intima , cioè fino a che la nostra coscienza illibata della realtà naturale ( Persefone) non viene stuprata  e tradita (pag. 349 ), fino a quando non ci apriamo alla prospettiva di Ade  noi rifiutiamo di ammettere che la realtà umana dipende interamente dalle realtà che accadono nell’anima  .. e che proprio in quelle noi siamo veramente reali. E inoltre  sostenere che noi non siamo reali    significa allentare la presa sulla vita  e sui punti di vista del mondo umano , sui fatti letterali e soggettivi, sugli accadimenti personali.

Pertanto, continua Hillman, ogni atto della coscienza è il riflesso d’una immagine fantastica che va molto oltre il letteralismo della nostra vita biologica, sociale o religiosa.

IL rifiuto di riconoscerci come irreali ci impedisce di psicologizzarci e di guardare in trasparenza.   Rifiuto che in definitiva nasce dal  rifiuto della nostra fragilità  che ci porta a costruire e ad aggrapparci a qualunque cosa possa puntellarci e renderci solidi. Rifiuto che porta anche la moderna psicologia umanistica a rivolgersi verso  fantasie di luce di autorealizzazione fondate sull’Io o sul  Sé, costruendo un uomo forte con un’anima fragile perché non capace di rivolgersi alla (sua)  natura mitica  e al suo eterno impulso ad uscire dalla vita.

L’Anima del Rinascimento, che Hillman riprende, non ha invece dimenticato l’ombra della morte e , nel benessere dell’Anima, ha creato questo strano matrimonio tra inumanità e anima. Può esserci - si chiede  Hillman stesso - un più acuto contrasto? La morale rinascimentale non divideva il fare anima dalla profonda inumanità e dai processi di patologizzazione presenti nell’anima stessa.

Nutrirsi d’immagini” significa  quindi potere  giungere all’altra sponda, non nel trascendente in senso spiritualistico religioso, ma “al di là del troppo e solo umano”

come dice Grazia Marchianò nella sua lettera al già citato epistolario, ridando alla capacità visionaria il suo potere di cura e lenimento della umane fatiche.

Non solo, ma ciò restituisce meraviglia alla vita –commenta Hillman  – oltre ad  un’accettazione più compassionevole delle  nostre necessarie limitazioni .

 Come se attraverso questa capacità “visionaria” della mente noi possiamo reggere ( e non in senso eroico) la nostra umanità.

Il paradosso dunque  si rivela terapeutico, capace di farci andare oltre i nostri stessi confini ed attaccamenti, donando  contemporaneamente  una grandiosità alla nostra semplice, unica individualità.

Questa quindi la re-visione della psicologia di Hillman, una visione che ci fa sognare, vivere profondamente ed andare oltre: andare oltre soprattutto a questa sua stessa visione  che, come tutto, bisogna sapere abbandonare e oltrepassare per entrare nei meravigliosi giardini di Anima.

domenica 8 gennaio 2012

Il Luogo dell'esperienza : riflessioni sul film " Il cielo sopra Berlino"

                         Seminari su cinema e letteratura  
                                      Gennaio -Aprile 2012


"Per Jung l’angelo è un archetipo, una delle forze della vita, uno dei modi con cui l’energia si manifesta,flusso di un’intelligenza più vasta che aiuta l’uomo nel suo processo di evoluzione. E’una forza psichica potente e destrutturata che prelude a una nuova ristrutturazione della coscienza"





Il corpo è ciò che ci rappresenta, che ci definisce, che ci connette con quanto ci circonda. Le sue espressioni, i suoi sintomi, le sue manifestazioni, sono “metafore” della nostra esperienza e della nostra storia. Il corpo ci racconta.   Ciò basta per avere scelto il corpo come oggetto di riflessione per questo anno, per dedicargli cinque seminari che ne trattano diverse angolazioni e declinazioni. Perché il corpo è il nostro “esistere”, il nostro palesarci qui sulla terra, l’uno di fronte all’altro, nudi e aperti al suo sguardo. Tale premessa spiega abbondantemente credo il  perché ho scelto questo film per  iniziare un  itinerario sul corpo e sulla corporeità, chiamando questo mio intervento “Il luogo dell’esperienza”.

E’ ovvio, se non banale,  affermare che la nostra dimensione umana si “radica” nel nostro essere corpo, nel nostro sentire , dentro i confini che esso determina, dentro il tempo e il suo ciclo di nascita e morte.  E che pertanto il corpo (corruttibile)  è la sede del nostro vivere.  Eppure l’uomo è continuamente spinto a ricercare oltre se stesso e i limiti che gli sono assegnati il senso del proprio esistere. E’ portato a rivolgere al cielo le sue eterne domande, come se solo dall’alto potessero giungere risposte al grido umano di dolore e sofferenza cui siamo destinati, cercando sempre di trascendere il corpo, di superarlo, di affidarlo a una potenza superiore . Pertanto l’Angelo, in qualsiasi modo vogliamo intenderlo è sempre il rappresentante di un’ entità spirituale, cui rivolgiamo inascoltati le nostre suppliche , ma il cui contatto è impossibile,  a meno forse di affidarci a questa immagine  con gli occhi innocenti del bambino.  In altri termini, l’Angelo  è il nostro puro pensiero, l’aspetto Animus di ognuno di noi, l’archetipo di una  forza  superiore che ci aiuta a superare le difficoltà, a sostenere il peso della nostra “gravità”. In questo rapporto costante e muto tra l’essere uomo e l’aspirazione alla divinità, il film di Wenders ci propone  il punto di vista dell’angelo.

Quello che, al contrario, guarda in basso: e non solo perché è lì pronto ad aiutare chi ne ha bisogno, ma per “invidiarlo”,  per desiderarne la pesantezza, sentire i sapori della vita, gli odori, il dolore (il corpo ) .  Avrei voluto intitolare le mie riflessioni attorno a questo film ( che evidentemente può avere altre letture e ispirare altre considerazioni) come “ La nostalgia dell’angelo”  verso la vita terrena, unico modo per conoscerla   e comprenderla.

In qualunque modo si voglia leggerlo, il film allude al rapporto tra l’alto e il basso, tra l’uomo e il soprannaturale,  tra l’uomo natura e l’uomo  spirituale , nell’eterno  dialogo che l’essere umano fa con se stesso.
Wenders  lo mette in scena  nel cielo  della  Berlino della guerra fredda: una città grigia, devastata dall’angoscia di morte e dalla disperante sensazione di non avere un futuro.
Damiel e Cassiel,  i due angeli protagonisti osservano distaccati e invisibili ciò che accade nelle strade, nelle case , nelle menti della gente,  ne “ascoltano”i  pensieri , le  preoccupazioni, le  ansie.  In questo ascolto, nessun contatto è possibile, nello stare accanto a chi soffre, nessuna possibilità di aiuto è consentita: solo i bambini sembrano poterli vedere  spinti da una capacità immaginativa che li aiuta ad andare oltre.
In questa dimensione senza tempo, senza limiti di spazio e senza dolore, l’angelo però non è felice: gli manca il contatto, la possibilità di toccare l’altro, di essere visto.

Tutto il film è attraversato dalla tensione tra l’alto e il basso, nel tentativo di superare la scissione  tra il mondo dello spirito e quello della materia  che ne determina la difficoltà di comunicazione : difficoltà che riguarda la realtà intrapsichica, la sua dialettica, il suo gioco.
L'Angelo nè è l'intermediario, il messagero.
In tutta la prima parte il regista sembra permanere nella dimensione “cerebrale”, fredda e incolore del pensiero assoluto,  del Logos  : colpisce il grigio, il non-colore, la distanza tra sé e mondo, mentre  Damiel comincia a “desiderare” la condizione umana, una sorta di “invidia” o di nostalgia per quello che è la “normalità” del vivere, persino per il suo dolore.
La mancanza della dimensione corporea, della sua pesantezza, così lontana e sconosciuta per esseri di puro spirito, finisce per alimentarne  il “desiderio”, introducendo  il principio opposto: l'Eros.

Sì è magnifico vivere di solo spirito, e giorno dopo giorno testimoniare alla gente, per l'eternità, soltanto ciò che è spirituale. Ma a volte la mia eterna esistenza spirituale mi pesa. E allora non vorrei più fluttuare così, in eterno: vorrei sentire un peso dentro di me, che mi levi questa infinitezza legandomi in qualche modo alla terra, a ogni passo, a ogni colpo di vento. Vorrei poter dire: "ora", "ora", e "ora". E non più "da sempre", "in eterno". "


In una lettura junghiana, Damiel sembra personificare l’archetipo del maschile , l'Animus ancora dissociato dal suo opposto femminile, ma inesorabilmente portato a cercarlo. Il desiderio di cadere nel mondo è infatti guidato da Marion, dal femminile, dalle curve del suo corpo, dalla solitudine della sua bellezza. E’ questo che spinge sempre più il cammino di Damiel  fino a quando il desiderio di raggiungerla  diventa tanto forte da attrarlo verso il basso, abbandonando la protettività della pura essenza , fino a cadere nel mondo e nel tempo ,  ed “entrare nel piacere di amare” come dice la stessa Marion.

Il Circo, di cui Marion è l’Anima, inteso come archetipo del femminile, è esattamente il luogo dell’errare terrestre, del nomadismo, dalla instabilità per eccellenza. Non solo luogo di divertimento e di gioco , ma anche di isolamento e di tristezza. Con il circo entra in scena la  prospettiva umana , limitata dal cerchio , dalla ripetizione, dalle maschere.
Due mondi dunque: quello dell’alto e quello del basso. L’uno aperto, senza confini. L’altro circolare, rotondo, inscritto nel cerchio della ripetizione. Due mondi che sembrano irreparabilmente lontani, irrimediabilmente destinati a sfiorarsi, a incrociarsi, senza giungere mai a un vero e proprio incontro.
Altro elemento fortemente simbolico è il muro: il  muro di Berlino diventa nel film di Wenders  la barriera tra il mondo dello spirito e il mondo dell”umano: il simbolo della separazione tra  la città celeste e la  città terrestre come condizione ontologica di quella frattura  dell’essere che costituisce l'essenza di tutta la tradizione filosofica occidentale.  E’ accanto al muro che avvengono la maggior parte dei dialoghi tra i due angeli: il Muro è il confine  da superare, da valicare, quello che divide, che rende impossibile la comunicazione tra un lato e l’altro.
Ad esso è in qualche modo associato:  la corazza.  Quando i due mondi entrano in comunicazione, quando lo spirito si fa carne, la corazza che separa la vita emotiva, istintuale, da quella intellettuale cade a sua volta, La distanza protettrice che ripara la mente dalla complessità della vita affettiva.
Entrare nel corpo è entrare nel mondo del sentire, nel piacere e nel dolore.
Sono tutti evidenti  simboli della  vita intrapsichica  quelli che tratta  il regista , la rappresentazione della  trasformazione interiore che dalla scissione va verso l’integrazione delle diverse parti del Sé, polarizzate nel maschile e nel femminile, e che nell’incontro tra l’uomo e la donna trovano la complementarietà e la completezza.  E’ solo l “integrazione” nella coscienza delle parti scisse  che fa dell’uomo un Uomo, ridefinendolo come individuo con una sua storia,  come dirà alla fine il protagonista,  e che  l’Angelo ( inteso come puro pensiero o spirito)  non potrà conoscere mai .
Nel film che segue “Così vicino, così lontano” non apprezzato dalla critica quanto il primo, Wenders rende chiaro come il suo angelo sia una parte di noi, e che la “lontananza” è in realtà la non avvenuta evoluzione della nostra interiorità psichica, il non raggiungimento della totalità. Totalità che è frutto di una scelta, di un percorso interno faticoso  e di una rinunzia consapevole,  ma anche di un investimento libidico . 
Spinto da Eros ( funzione dell'Anima ) dunque, Damiel deciderà di risalire il guado del fiume  rinunziando  alla propria immortalità.  Diventerà  umano, mortale, dando inizio alla Storia : solo ora  le sue impronte saranno visibili.
Sono 4 i simboli fondamentali  attorno a cui ruota il film:  il cielo,  il circo (il cerchio),  il muro (la corazza) , il bambino ( l’innocenza, la capacità di stupirsi ).
Gli archetipi del femminile e del maschile, Animus e Anima secondo la prospettiva junghiana, qui rappresentati dal  cielo e la terra, lo spirito e la materia , sostanziano il cammino dell'angelo verso il corpo, la sua caduta nel mondo,  fino all'integrazione e alla fusione delle diverse parti in un unico essere: l'Uomo nella sua  totalità .
“E’ successo qualcosa che continua a succedere……..io ero in lei e lei era intorno a me. Chi al mondo può dire di essere stato insieme a un altro essere umano? Io sono insieme. Questa notte ho imparato a stupirmi. Mi è venuta a prendere e l’ho trovata a casa………
Solo lo stupore su di noi, lo stupore dell’uomo e della donna ha fatto di me un Uomo.
Io ora  so ciò che nessun angelo sa


Per concludere , il film propone un capovolgimento della visione più propria alla cultura occidentale, ribaltando l’aspirazione alla trascendenza e rivalutando il corpo come unica sede del nostro “essere nel mondo”. Il tema del corpo e della trascendenza non è nuovo nell’arte, soprattutto in relazione al discredito che la corporeità ha subìto in secoli di cultura  orientata a privilegiare lo spirito e la mente , secondo l’intrinseca scissione cartesiana tra rex cogitans e rex extensa.   

Wenders ne rivaluta la necessità ontologica, dando al corpo la dignità che merita e soprattutto attribuendo ad esso la vera possibilità di esperire  la vita  non solo come strumento,  ma come  spazio soggettivo entro cui  si inscrive e si palesa  la nostra identità.