Premessa
Molti anni fa, in occasione
di un convegno, sono stata invitata a trattare il tema dei trapianti sotto il
profilo psicologico.
Pur essendo passati più di
dieci anni, considero ancora quel lavoro significativo. La possibilità di
effettuare un trapianto d’organi è tecnicamente sempre più facile e socialmente
sempre più accettato. Ma rimane sempre da comprendere l’atteggiamento personale,
spesso problematico e contraddittorio, di chi compie tale scelta e la
complessità di reazioni che essa genera in chi si trova nelle condizioni di
ospitare dentro di Sé una parte estranea. Se oggi la medicina si propone sempre
più come la scienza della “frammentazione” , non si può trascurare il fatto che
il sentimento di individualità ( nel senso di in-dividuo-non diviso) sia intensamente e profondamente scovolto da
una esperienza del genere. E’ necessario accettare molte ansie, interrogativi e angosce di ogni
ordine, per accettare veramente dentro di sè una parte corporea che era
appartenuta ad un altro.
Per parlarne ho preso in
prestito due storie vere e ho intitolato il mio intervento “L’altro in noi”.
L’esperienza di un trapianto , e in
particolare del trapianto del cuore, organo centrale e fondamentale per la
sopravvivenza, è un’esperienza assai complessa in quanto coinvolge più piani
dell’esistenza e quindi più ambiti disciplinari, articolandosi ed declinandosi
tra fisico e psichico, etico e religioso, scientifico e spirituale. Ma, prima
ancora di essere della scienza, della medicina o del progresso, essa è
primariamente una vicenda umana, densa di contrasti, speranze, paure, entro la
quale la vita e la morte si sfiorano e si
intrecciano e dove l’Io e l’Altro perdono i propri confini, talora anche
il loro significato. E’ proprio in questa zona di frontiera, zona d’ombra, zona
incerta e indefinita che la psicologia può dare il proprio contributo in quanto
capace di penetrare laddove neanche il bisturi più sofisticato può penetrare.
Per farlo, mi servirò dei racconti autobiografici di due
persone che hanno attraversato questa esperienza e che, scrivendo, hanno voluto
condividere con gli altri le loro angosce, i loro dubbi nell’ attraversamento di questa zona di
frontiera dove la vita e la morte diventano vicinissime, divise solo da un
sottilissimo velo: Cristina Bono con il suo “Con il cuore in sospeso” Bollati Boringhieri e il filosofo Jean-Luc
Nancy con “l’Intruso” Cronopio.
Entrambe le narrazioni, in modo molto diverso, sono la
testimonianza di questa complessità: la prima, un diario limpido e avvincente
di quella che viene definita una rinascita attraverso un percorso irto di prove
dure e difficoltà. L’altra, una sorta di “biografia filosofica” nella quale
l’autore si interroga sul senso di
tale scelta e sulla presenza dell’intruso
in noi.
Impossessandomi un po’ delle loro storie ho potuto meglio
entrare nei pensieri, nei sentimenti, nelle immagini che accompagnano chi
decide di sottoporsi ad un trapianto, di coglierne l’intensità emotiva, la
conflittualità esplicita o latente, la sofferenza che essa comporta: è una
scelta che tocca inevitabilmente diversi aspetti, considerazioni diverse,
spesso impossibili da liquidarsi con un sì o con un no, in ogni caso difficili
da ricomporre in un’ unica risoluzione. Ognuno infine cercherà di darvi una
risposta il più possibile unitaria, che non comporti una disgregazione della
propria personalità e che tenga conto non solo delle necessità del corpo, ma
anche delle necessità dell’anima, intesa come l’insieme di ciò che ci orienta,
ci spinge, ci agita. Ciò che appunto abita e anima il nostro corpo.
LA SCELTA
Scrive Jean-Luc Nancy: E’
inutile il dibattito tra chi ritiene che il trapianto sia un’avventura
metafisica e chi lo considera una prestazione tecnica: esso è inevitabilmente
entrambe le cose, l’una nell’altra.
Ogni trapianto è infatti l’avventura di un IO tra sé e l’altro che la tecnica moderna
ha reso possibile
all’interno di un contesto sociale e culturale che ritiene
doveroso andare oltre i limiti imposti dalla natura e oltre il tempo che la
stessa ci ha assegnato: un contesto dove
le scoperte scientifiche hanno saputo scavalcare certi confini un tempo
assolutamente invalicabili in quanto fondamentalmente sacri. Ma tutto questo
comporta innanzi tutto una scelta, o meglio ancora un’insieme di scelte, di tante persone. E la
scelta è sempre un atto propriamente umano, sia esso individuale o collettivo;
risponde sempre a un dubbio, ad un ‘alternativa senza la quale non sarebbe possibile.
Il trapianto è quindi innanzi tutto il frutto di una
decisione, o meglio ancora l’esito finale di una scelta composita, fatta da
persone diverse: l’Io ricevente; l’Altro che ha deciso di donare i propri
organi o qualcun altro che ha deciso per lui; i medici che devono decidere se
esso è di fatto praticabile, se ci sono i
requisiti per iscrivere o non in una lista di attesa, anche qui scegliendo
tra un paziente e l’altro. Alla base di
questo processo di scelta che coinvolge queste persone c’è già una scelta di
base: tutti hanno stabilito che la sopravvivenza è un bene. E devono averlo deciso
in relazione a tanti fattori, sia di realtà che di opportunità: mi riferisco
all’età, alle condizioni fisiche, alle considerazioni più ampie di ordine
familiare e sociale. Una valutazione
complessa che deciderà se la vita , o meglio quella vita, possa e debba essere prolungata.
Fin qui sembra che la scelta sia un fatto puramente
razionale o tecnico , una scelta
ponderata resa possibile dalle acquisizioni
scientifiche e dai suoi progressi. Ma essa è anche un fatto emotivo,
immaginativo, simbolico. Potere estendere i propri confini, continuare a vivere
oltre la propria morte, avere in mano, o
tra le mani, la possibilità di creare ancora vita ci assimila al dio, a
un sentimento di onnipotenza che un tempo andava al di là dell’umano.
Sentimenti che abitano il cuore della scienza oltre che dei singoli
protagonisti di questa avventura. Nella scelta siamo già di fronte ad una
enormità di fattori che concorrono a determinarla e che la includono tra le
scelte più difficili da fare, in quanto biforcano o comunque alterano
fondamentalmente il proprio piano di esistenza.
Una scelta che comporta l’inevitabile peso
delle sue conseguenze, impossibili da prevedere se non in una formulazione di
tipo statistico.* Una scelta che risente del clima collettivo, dei condizionamenti
culturali, delle spinte agite dai mass media e dalle fantasie che esse suscitano.
Una scelta tra la morte e la vita, nella speranza che i due
stati possano distinguersi ed isolarsi a vicenda, senza che l’una si inserisca
prepotentemente nell’altra.
Scrive Jan-Luc:
Dal momento in cui mi
fu detto che era necessario un trapianto, tutti i segni parvero vacillare,
tutti i riferimenti capovolgersi. Senza riflettere, certo, senza individuare
nessun atto, nessun mutamento. Semplicemente la sensazione fisica di un vuoto
già aperto nel petto, con una sorta di apnea in cui niente, assolutamente
niente, neppure oggi, riuscirebbe a districare da me l’organico, il simbolico,
l’immaginario, né a separare il continuo dall’interrotto: era come un unico
soffio, ormai sospinto attraverso una strana caverna già impercettibilmente
socchiusa, un’unica impressione:di essere caduto in mare pur restando ancora
sul ponte.
*L’imprevedibilità di una simile
scelta e del carico emozionale cui la stessa connette, è bene descritto nel recente film “21
granmm:il peso dell’anima” che guarda alla problematica del trapianto dai
diversi punti di vista ( donatore/
ricevente) penetrando acutamente nella
tempesta emotiva che la stessa sollecita in tutti quelli che vi sono coinvolti.
L’ATTESA
Eccomi qui…in attesa.
Un’attesa che potrebbe durare da pochi giorni a lunghi e interminabili mesi. Un
mese è già passato: è passato in fretta e spero che quelli che verranno, se
dovranno essere tanti, trascorreranno altrettanto in fretta. Perché l’idea che
più il tempo passa più le mie energie fisiche e mentali vengano meno mi fa
enormemente paura.
Così apre il suo diario Cristina Bono.* La scelta è stata
fatta : si apre il tempo dell’attesa.
Cosa può accadere nella mente di chi aspetta un altro cuore
per non morire? Come mettere d’accordo
questo desiderio di vita che si fonda sulla morte di un Altro? Come potere
immaginativamente sopportare che questo fatto avvenga il più presto possibile?
Cristina lo risolve nell’immagine del cavaliere sconosciuto.Un’immagine mitica,
fiabesca, che l’aiuta a risolvere l’enigma di quell’ignoto donatore che con la
sua morte le regalerà la vita. Un’immagine capace di non far sentire
all’interno della propria coscienza un possibile, remoto senso di colpa, ma che
all’opposto si traduce in una fantasia di continuazione: l’altro potrà continuare a vivere dentro il mio corpo.
L’attesa è dunque densa di fantasie tra la propria vita e la
morte dell’altro, di un’ambiguità che necessita di una soluzione immaginativa
per essere meglio tollerata e che comporta un tempo fatto di ansie ,di angosce,
ma anche di speranze e di fiducia. L’ansia dell’attesa è anche densa della
paura di non farcela, di non avere forze sufficienti, morire prima.
Scrive Cristina: Quando
il corpo poco per volta ti abbandona, consumandosi lentamente come una candela
è solo la forza della mente che ti permette di continuare a lottare. A
sperare. A sopravvivere. E quando
anche la mente è stanca e si abbandona a sè stessa perdendo la voglia di
lottare?
Per attendere in alcune condizioni è infatti necessaria
tutta la propria forza interiore e la piena volontà di volersi misurare con le
limitazioni e le mancanze che ne verranno. Una situazione psicologicamente
molto frustrante che facilmente può generare depressione, disperazione,
ribellione. Dice Cristina nel corso del suo scritto che ha dovuto imparare la
pazienza, cosa per lei sconosciuta fino a quel momento. L’attesa è perciò la
fase della sfida con il tempo, con il Caso o col destino, ma più e più ancora
con sé stessi. E’ necessaria una capacità di resistenza che solo una forte
motivazione può sostenere, cui non basta il solo istinto di sopravvivenza, ma
la capacità di nutrire e sostenere in esso gli inevitabili momenti di
cedimento, di scoraggiamento. A volte infatti il desiderio di gettare la spugna
si fa più forte, più intenso. In quei momenti è inutile ogni ragionamento, o
discorso o retorica. Come dice Jean-Luc si deve solo gridare e gemere,
accogliendo in la propria vulnerabilità e attraversarla.
* L’atteggiamento di Cristina Bono, come si può subito
avvertire da questi brevi stralci, è molto diverso da quello di Jean-Luc. La
funzione sentimento sembra prevalere su quella
di pensiero che sottende il procedimento del filosofo, più speculativo e
più critico. Cristina, in modo più femminile, trova nell’immaginazione e nella
poetica della mente la risoluzione dei propri conflitti, con un’adesione
all’evento più ottimista e gioiosa anche nei momenti di maggiore difficoltà. I
due racconti sono speculari e chiunque li legga ascolterà la complementarietà di queste voci
come tonalità affettive di un unico canto innalzato alla fatica del vivere.
IL PASSAGGIO
Buongiorno Professore!
Ci sarebbe la possibilità di un trapianto.
Bene.Mi dica cosa devo
fare.
Si prepari con calma e venga in ospedale.
D’accordo, non ci
metterò molto. Abito vicino.
Ma lei dov’è adesso?
A casa.
E perché non ha risposto alla prima telefonata?
Perché non me ne ha
dato il tempo!
Il momento è giunto. Quello che per mesi si è sperato e
temuto insieme è accaduto. Un cuore è pronto per la nuova abitazione, per
un’altra dimora. Il tempo diventa ora velocissimo. Bisogna far presto,
affrontare il passaggio, l’inevitabile incognita in esso contenuta, il rischio
di non farcela. La scelta si fa più cupa, più opprimente: ma non c’è tempo ora
per la riflessione. E’ il tempo dell’agire, dell’esserci, con la consapevolezza
di dovere attraversare il non essere. Come dice Jean-Luc il trapianto impone l’immagine
di un passaggio attraverso il nulla, dell’uscita in uno spazio svuotato di ogni
proprietà e di ogni intimità,…mentre il corpo sarà spazio di intrusione di
tubi , pinze, suture, sonde. Per ora il passaggio è affidato a tutti gli altri,
meno che a sé stessi. Sarà dei medici, degli anestesisti, delle macchine. Sarà
dei familiari in trepidante attesa nei corridoi. Sarà degli altri, come del
resto tutti i più grandi eventi che ci riguardano.
JeanLuc vive questo momento come il massimo della propria
estraniazione.
Cristina lo vive come un lungo viaggio in cerca di sé
stessa.
Tutto ciò che fino a quel momento si era immaginato, o al
contario tenuto distante dalla propria immaginazione, sta ora per avvenire: l’apertura
del torace, la conservazione dell’organo da trapiantare, la circolazione extra
corporea. Paura ed euforia convivono o
si alternano in una massa caotica di sentimenti . E’ certo il momento dei
saluti.
Cristina saluta con la certezza di tornare.
IL DOPO
Il primo pensiero è sempre: sono ancora qui. Quell’io
che durante l’intervento si è ritirato in un altrove inaccessibile fa ritorno e
con esso torna la consapevolezza dell’esistere, ora, qui, ancora in questo
corpo. Come l’angelo caduto dai Cieli
sopra Berlino sono proprio i segnali
di dolore del corpo a richiamare l’Io alla gioia di esistere. Il ritrovamento
di sé sta proprio in questo miscuglio di gioia e dolore, entrambe manifestazioni
primarie dell’essere. Comincia ora
una fase lunga e difficile durante la
quale –dice Jean Luc – si va di
dolore in dolore. All’immediato dolore del risveglio, delle sonde, dei
cateteri, delle arsure , delle ferite, si aggiunge il pericolo del rigetto.
Questo corpo ancora vivo, vive con un altro cuore. L’estraneità adesso non è
più né simbolica, né psicologica. E’ immunitaria. Il corpo respinge l’altro da
sé: lo attacca. Tende a distruggerlo. Non è capace di riconoscerlo come
proprio. Per fare in modo che quell’organo improprio
così faticosamente conquistato resista all’interno del nuovo spazio
corporeo occorre indebolire la capacità di quest’ultimo di autodifendersi,
bisogna impedire la funzione del riconoscimento, rendere il sistema difensivo
inerte, inerme.
Si giunge così – cito ancora Jean-Luc – a un regime permanente dell’intrusione entro il quale la vita
stessa diventa nemica. Il corpo indebolito dalla terapia immunosoppressiva
lotta selvaggiamente per resistere. Tutto può attaccarlo. Persino il suo stesso
interno.
Continua Jean Luc:
Dall’avventura si esce sperduti. Non ci si riconosce più: ma “riconoscere” non
ha più senso. Si diventa rapidamente solo un’ondeggiamento, una sospensione di
estraneità fra stati non bene identificati, fra dolori, impotenze, cedimenti.
Qualcuno non ce la fa. A volte succede proprio nel letto
accanto, al proprio compagno di avventura.
Come per Marie. Racconta Cristina che la morte della
compagna di letto l’aveva gettata nella più pura disperazione, come se tutta la fatica fino a quel momento sostenuta
fosse stata vanificata in un attimo dalla realtà tremenda di quella scomparsa,
proprio nel letto accanto.
La battaglia continua a richiedere nuove forze, nuova
capacità di sopportare e andare avanti senza guardare indietro, senza guardare
accanto. La morte dell’altro è sempre la proiezione della nostra morte,
l’inevitabile momento in cui la rimozione di questa eventualità non regge più e
la realtà compare nella sua più elementare evidenza.
Cristina supererà anche questa prova, continuando a guardare
avanti e andando oltre la lacerazione che l’abbandono della sua compagna ha
provocato, cercando di considerare anche quell’evento come l’ennesima sfida al
suo spirito eroico, come ulteriore conferma della sua determinazione.
LA
CONVALESCENZA
Superata la prima fase , assestata la terapia antirigetto,
si chiude il periodo dell’ospedalizzazione e si torna a casa. Ma il ritorno tra
le proprie cose non è esattamente il ritrovamento costante delle cose così come
si erano lasciate. L’esperienza oltrepassata ha modificato profondamente la
percezione del mondo circostante e di sé stessi. L’apertura del proprio spazio
corporeo e l’intrusione di un organo estraneo ha comunque modificato l’immagine
precedente. Quand’anche lo straniero sia stato accolto ed assorbito in sé, rimane il dubbio che esso abbia alterato la
propria originarietà e che qualcosa di
sé sia cambiato per sempre.
Che strano Io ! -
continua Jean Luc- La questione non è che mi abbiano aperto, spalancato, per sostituirmi
il cuore, ma che questa apertura non può essere richiusa…..Io sono aperto
chiuso. C’è in me un’apertura attraverso la quale passa un flusso incessante di
estraneità: i farmaci immunodepressori e gli altri che servono a combattere
alcuni effetti detti secondari. Le
conseguenze inevitabili,…..i ripetuti controlli, tutta l’esistenza posta su un
nuovo piano, trascinata da un luogo all’altro. La vita scannerizzata e
riportata su molteplici registri ciascuno dei quali iscrive altre possibilità
di morte.
Il ritorno alla normalità dunque – se ha ancora un senso
utilizzare questa espressione – è un processo giornaliero di riappropriazione e
di revisione del rapporto con sé stessi e le cose che ci circondano. Ogni
malattia offre sempre l’occasione di una trasformazione esistenziale. La scala
di valori su cui si fondava il proprio universo può variare o capovolgersi.
Dipende dalla storia di ognuno, dall’immagine e dal significato che ognuno dà
alla propria malattia e alla propria sofferenza. E’ da queste immagini e dal
senso ad esse attribuito che si può trarre la volontà e la motivazione a
combattere o, viceversa, abbandonare il campo, autodistruggersi. Il materiale
psichico è dato dalla combinazione di diversi fattori: le esperienze passate,
il grado di soddisfazione o insoddisfazione del presente, le tensioni e gli
obiettivi del futuro. E poi è dato dalle idee, dalle convinzioni razionali ed
irrazionali di ognuno di noi, dalla propria disposizione emotiva.
Un trapianto e il suo esito non è la storia dell’intervento
chirurgico né delle odierne possibilità terapeutiche. Non è possibile trovare
soluzioni ad una dimensione, né innalzare il progresso scientifico ad unico
dio. E’ necessario comprendere che l’uomo è dotato di una parte intangibile ed
inafferrabile, un daimon interiore che lo
guida ancor più delle sue capacità razionali, che anzi più spesso confonde o
annienta.
Conclude Jean-Luc : L’intruso
non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non
lo stesso Io che non smette mai di alterarsi, insieme acuito e fiaccato,
denudato e bardato, intruso nel mondo come in sé stesso, inquietante spinta
dello strano, conatus di un’infinità escrescente.
E Cristina a sua volta: Con il trapianto ho imparato a volermi bene. E
poi io e il mio nuovo cuore stiamo bene insieme. Ci siamo piaciuti subito. Sin
dal primo momento ho sentito che faceva parte di me. Non l’ho mai considerato
un estraneo….. Penso spesso alla persona che me lo ha donato. Nei momenti di
felicità riconquistata mi metto una mano sul cuore e gli sussurro un grazie.
Bibliografia:
Cristina Bono Con il cuore in sospeso” Bollati Boringhieri
Jean-Luc Nancy “L’intruso” Cronopio.
Relazione presentata
al Convegno Regionale CEFOPER : Corso di aggiornamento “L’evoluzione del S.S.N.
Disposizioni in materia di prelievi e trapianti d’organo” Nicolosi
Ct 2001