Il
figlio dell’altra. Lorraine
Lévy 2012
Cosa
decreta l’identità personale? L’ appartenenza
a una famiglia è determinata dal sangue e da ciò che è depositato nel DNA di
ognuno di noi, o è il risultato dell’educazione
ricevuta attraverso i legami affettivi, l’amore di cui si è stati oggetto, la
condivisione della quotidianità? E, soprattutto, che vuol dire essere genitori
? Sono queste le domande che il film
pone e a cui sembra dare risposte, evidenziando in modo netto la differenza dei
valori- natura propri ad ogni madre e dei valori
- cultura che sostanziano l’essere padre, soffermandosi sulle reazioni dei
figli di fronte alla verità della propria origine, sulla con-fusione emotiva
che alcune rivelazioni suscitano nel
sistema famiglia . Se questi interrogativi sono poi ulteriormente complicati
dal conflitto sociale del luogo in cui si vive,
israeliani e palestinesi nel caso specifico, ancora di più il tema si riempie di contenuti emozionali, mostrando come anche i sentimenti più solidi
siano messi alla prova dalla banalità dell’ errore umano e delle sua
drammatiche conseguenze. Di fronte ad
esperienze come quella narrata dalla regista francese , anche i più intensi
legami inevitabilmente vacillano, si
ritraggono, si oscurano nel dubbio e nella diffidenza. Si mette a nudo l’Ombra
della psiche individuale, le gelosie, le rivalse.
Intorno
al muro che divide Israele dalla Palestina la regista ci racconta non una
storia politica ma una storia umana , l’una nel riverbero dell’altra, toccando i punti salienti del difficile
rapporto genitori-figli nel momento in
cui questi ultimi, poco più che
adolescenti, sono alle prese con la formazione
di sé stessi, con l’ambivalente necessità
di poggiare su una base affettiva stabile, sulla conferma che dall’Altro
proviene. Il film mostra in particolare come una rivelazione inattesa generi smarrimento più nei padri che nelle
madri, mettendo in luce la capacità delle donne di farsi ventre anche del
figlio che non hanno nutrito, di aprirsi alla
tenerezza di fronte a chiunque ne abbia bisogno, sia nato dal
proprio corpo o dal corpo di un’altra donna, nutrice sempre , sempre
capace di nuovo adattamento.
Al
contrario , la regista mette a nudo la difficoltà del padre, il rapporto culturale che ha con il figlio, legato più al
fare che all’essere , dominato in fondo della
diffidenza verso la donna-madre , più incerto e confuso di quest’ultima sulla
autenticità dei propri sentimenti. Dopo la prima destabilizzante notizia ,
Leila e Orith, le due madri protagoniste
non esitano a riconfermare il loro amore ai figli che hanno allevato pur non
essendo quelli che hanno partorito, senza disconoscere il richiamo del corpo , ma anche capaci di resistervi.
Un
film che indaga sulle differenze di genere, sul maschile e femminile, ancora prima della differenza dei ruoli
genitoriali. Significativa la reazione del fratello di Yacine
uno dei due ragazzi coinvolti nello “scambio” di culle: l’improvvisa esplosione
della rabbia etnica che trasforma il
fratello in nemico. Nel rigetto, nella negazione dei sentimenti in nome di una
cultura religiosa estremista, ferito nella hubris personale
, il giovane confonde i principi con la realtà, le leggi degli uomini con
quelle della natura, ancora una volta palesando
la grande differenza delle reazioni maschili rispetto a quelle femminili, come quelle delle
sorelle, vere piccole donne, capaci fin dall’inizio di accettare i cambiamenti
senza ostilità, preoccupate più di ogni altra cosa di perdere la presenza di
Yacine l’una, o di Joseph l’altra.
Per
concludere , la riflessione del film sembra girare intorno alle parole di Zoja nel
suo famoso saggio “Il gesto di Ettore” quando,
riferendosi al mondo animale, scrive:“Insomma,
le madri non possono permettersi di non essere buone madri; i maschi invece
possono permettersi addirittura di non essere padri”.
Affermazione
che attribuisce alle donne la dimensione
della stabilità affettiva e dell’etica familiare che in ogni contesto socio
politico le caratterizza.
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