martedì 14 gennaio 2014

L'Arte come terapia, la terapia come arte


Libera interpretazione dell’incontro del 10 Gennaio 2014 con Giuseppina Radice al Caffè psicologico di  Contanimare.
                                                                      
                                                                       “Crescere, comprendere, e/o diventare    
                                                                          jongleurs è proprio una grande opus”

                                                                                                                     G. Radice

 
Il fare artistico, così come il fare (psico)terapeutico sono attività dell’anima e per loro natura processi che coinvolgono sia l’attore che lo spettatore; percorsi contemporaneamente di esplorazione e di rivelazione del sé e dei suoi confini, sempre irraggiungibili ma tuttavia “contenibili” nell’opus del fare anima. In entrambi si muove il desiderio di penetrare i suoi spazi sfuggenti, i suoi giochi e i suoi labirinti, essendo sia l’artista che il terapeuta viaggiatori erranti entro una materia che continuamente cambia forma e dalla quale, entrambi, sono plasmati e trattenuti. L’uno e l’altro non hanno altra meta se non il loro stesso fare, poiché la tensione che li muove è l’ansia della scoperta di sé che si riflette nell’altro da sé. Entrambi si servono dell’immagine. Come dice Hillman, nelle immagini la psiche rivela la sua potenza e la sua forza, al di là della intenzionalità della coscienza, molto più di quanto quest’ultima voglia o possa comunicare.

Entrambi si nutrono di intuizione, senza la quale non ci sarebbe accesso all’invisibile, e gli eventi non troverebbero legame e connessione,  restando macchie isolate e senza senso. Entrambi sono luoghi non luoghi entro cui l’esperienza soggettiva diventa storia universale, narrazione, musica, raffigurazione, comunicabile e condivisibile: per questo il loro legame è antico e inscindibile.

Certamente una delle metafore che  li accomuna è  quella del percorso, viaggio, processo. Termini che ne rivelano l’intimo dinamismo: un movimento che non si orienta verso una meta precisa ma che si muove guardandosi intorno. Non viaggio verso, ma attraverso. Spostamento. Dall’usuale allo straordinario, dal noto all’ignoto, dal abituale all’insolito. L’artista come il terapeuta entra nella realtà dell’anima, le dà forma e sostanza, e contemporaneamente ne diventa oggetto, materia. L’inseparabilità tra soggetto e oggetto  è un’altra delle analogie che  sottendono i due processi: come il terapeuta tiene aperto lo sguardo sull’altro che gli richiama sé stesso, così l’artista crea quell’altro da sé che rivela il più profondo sé. Nel loro “fare” mai possono estraniarsi da sé stessi . Eppure  il dimenticarsi e il mettersi da parte è condizione  indispensabile per penetrare nei labirinti dell’anima, decifrarne i contorni, toccarne i limiti.

Se la terapia è volontaria, l’arte al contrario è terapia involontaria, come suggerisce G. Radice. L’artista non ha in mente di mettersi in gioco: semplicemente gioca. Non è suo obiettivo liberarsi dalla sofferenza: esprime la sofferenza. Se pure in questo esprimersi si concretizza la funzione liberatoria, non c’è intenzionalità nel farlo, né ricerca di consolazione. L’artista non ha altro fine se non la creazione. Non intende portare alla luce quello che in lui è irrisolto: semplicemente gli dà vita.

Cambiando prospettiva, leggere un’opera d’arte è come leggere il sogno di un paziente. In essa si rivela sempre qualcosa che rimane inconscio al suo autore.  Come nella manifestazione onirica, il sognatore  non comprende ciò che ha messo in scena, riconoscendo solo brandelli di esperienza che sfumano nella sostanza eterica delle immagini; anche nell’opera artistica rimangono fissati brevi segni della propria esperienza interiore, spesso non riconoscibili dall’artista stesso. D’altra parte, se adottiamo il punto di vista junghiano, l’opera come il sogno fa riferimento  a qualcosa di molto più profondo di ciò che appartiene al piano personale. Essendo luoghi dell’anima, in essi si muovono gli archetipi, simboli e metafore del nostro inconscio collettivo con il quale entriamo in contatto solo abbandonando il controllo della coscienza egoica, della ragione e della volontà.  Superando questi limiti, artista e sognatore si avventurano nel territorio dell’immaginario, operando quella dislocazione dell’io soggettivo dal consueto allo straordinario, liberando la creatività dagli angusti territori delle regole della natura e della cultura, restituendo alla mente la sua capacità visionaria. E’ in questo territorio che sia l’Arte che la Terapia si riappropriano della Bellezza, intesa non come categoria estetica, ma come espressività dell’anima e della sua capacità di trasformare l’ordinario in straordinario (non era questa l’intenzione della pop-art? si chiede Hillman) .  Per dirla ancora con Hillman, è questo il compito dell’artista, com’ è anche questo il compito del terapeuta  che nelle esperienze ordinarie del suo paziente , nei suoi quotidiani smarrimenti, cerca di rintracciare senso e  bellezza.

Così si esprime Hillman:
“L’opera d’arte consente a distretti repressi del mondo e dell’anima di abbandonare la bruttezza e di entrare nella bellezza.”

Arte e terapia infatti ripercorrono la via alchemica dell’opus contra natura: trasformazione da ciò che è naturale in artificiale , riplasmando emozioni, rielaborando idee, ribaltando convinzioni. Così come l’arte non è mai copia della realtà, anche la terapia non è mai ricostruzione della realtà. Entrambe necessitano di “artificio” , di sacrificio, di elaborazione per andare oltre le vicende personali e toccare l’essenza dell’esperienza umana che, proprio in quanto umana, non è solo soggettiva e particolare, ma universale e collettiva.

E’ in questo lavoro , d’altro canto , che l’artista come il paziente compie il proprio percorso di individuazione, emancipandosi da maestri e terapeuti, così come dalle pressioni del collettivo, affermando la propria individualità e il proprio stile, elementi fondamentali di ogni strada di realizzazione personale.

Per concludere, c’è un’altra analogia che vorrei richiamare : se l’una e l’altra sono strade per raggiungere e rivelare il più profondo sé , ambedue condividono quello che in oriente è la via dello Zen.  Riporto per intero le parole di Suzuki, alle quali non c'è certamente niente da aggiungere:

“ Lo zen, nella sua essenza, è l’arte di vedere in profondità nella natura dell’essere di un individuo, ed esso addita la strada che conduce dalla schiavitù alla libertà…Si può dire che lo Zen liberi tutte le energie propriamente e naturalmente racchiuse in ognuno di noi, le quali, in circostanze ordinarie, sono compresse e distorte al punto di non trovare uno sbocco adeguato alla loro estrinsecazione….E’ compito dello Zen, pertanto, salvarci dalla follia o dalla menomazione.”
 

Riferimenti bibliografici:
 
James Hillman :  La politica della bellezza, Moretti e Vitali
Giuseppina Radice : L’Arte e il tiro con l’arco, Prova d’Autore

Lilia Di Rosa: H.Murakami, l’opera: un viaggio di individuazione, Recensioni e commenti su http://liliadirosa.blogspot.it/
Fromm, Suzuki, De Martino: Psicoanalisi e Buddismo Zen, Astrolabio


 

 

 

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