Nel palcoscenico grandioso di
Roma , la Bellezza e il suo mito popola le notti , le feste, gli incontri,
inondando della sua presenza la vita di
chi nella mondanità cerca il conforto e la soluzione al proprio male di vivere. Come
già nella Dolce Vita felliniana, a cui
il film è stato accostato, il regista
sceglie la ricchezza barocca di Roma, la sua grandezza stancante ed eccessiva,
come simbolo di una “promessa” e come antidoto a combattere la noia e l’ angoscia
di morte che ci divora.
Su questo sfondo, chi, più di un attore come Toni Servillo, avrebbe
potuto meglio interpretare la maschera dell’uomo ricco che, dalla sua magnifica
terrazza affacciata sul Colosseo, contempla con critico distacco e ironico
cinismo l’affannosa corsa contro il tempo,
mentre tra balli ossessivi e innumerevoli drink , festeggia il suo
sessantacinquesimo compleanno? Paolo Sorrentino lo sceglie per dare volto a Jep Gambardella: scrittore di un unico romanzo
giovanile, giornalista eclettico ed egocentrico alle prese con la domanda se
vale la pena di scrivere ancora, che in definitiva segue quell’altra: vale la pena di vivere continuando a
cercare con mille trucchi qualcosa che continuamente sfugge? Dissertando nel
suo salotto all’aperto insieme ad altri ugualmente impegnati a dare una
risposta alla stessa domanda, Jep non perde alcuna occasione che gli permetta
di coglierne un briciolo di senso, dal sesso alla cultura, dalle feste agli
affollati studi del più affermato chirurgo estetico, pur mantenendo da
tutto una distanza critica, una razionale
lucidità che lo difenda dal precipizio.
Ma l’imprinting della Bellezza ha radici lontane , nell’Ombra di un passato
che ciascuno tende continuamente a rimuovere, e a cui continuamente ci si
aggrappa, dirigendo le nostre scelte,
corrugando il volto, segnandolo, giorno dopo giorno, per infine consegnarci
l’immagine di ciò che siamo. In questo intreccio profondo risiede il sacro
senso del vivere, come sembra volere ricordare la Santa centenaria in
visita a Roma che con il suo volto disfatto dal tempo, con la sua immagine
violentemente diversa da ciò che si
cerca, ci riporta alla più
incancellabile verità: il canto
effimero della bellezza, la sua caducità. Il regista gioca con i simboli
dell’ambivalenza: dalla musica alle immagini, dal’individuale al collettivo,
dal personale all’universale , dal sacro al profano, eccedendo egli stesso ,
per raccontare in quest’opera grottesca e struggente, le contraddizioni e l’ambivalenza del viaggio nella vita. Di questo viaggio Roma ne rappresenta una meta,
un miraggio direi, ammaliante e
traditore.
“Roma mi ha deluso” , conclude
Verdone, l’unico personaggio che più
realisticamente osserva le cose dalla parte della periferia romana dove abita:
il più vicino a comprenderne l’illusoria seduzione e a decidere di fare ritorno al suo paese d’origine. Perché
la Bellezza è lì dove tutto è cominciato e dove, per la prima volta, ha svelato
il suo volto, dove l’eterno viaggio dell’uomo anela sempre di tornare se solo è capace di tollerarne la mancanza e la
consapevolezza dell’impossibilità di possederla.
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