domenica 30 ottobre 2016

Incontrarsi in terapia


Un buon incontro, nella stanza della terapia, avviene fin dal primo momento. Quasi sempre anche prima: al telefono o via email, al primo contatto per fissare un appuntamento. La voce, la risposta ad una richiesta, sono già elementi che predispongono all'incontro vero e proprio. Ne rimangono le prime impressioni, le prime  informazioni.
Poi finalmente ci si vede. Ad accogliere la persona che ha chiesto l'incontro non è solo il terapeuta, ma lo spazio dove tutto ciò avviene. E' la stanza, i suoi colori, le sue luci, la sua atmosfera.
Adesso ci si incontra con lo sguardo, con la stretta di mano, con l'ascolto e l'attenzione. Così inizia il racconto.

Quasi sempre al primo incontro è possibile cogliere un certo imbarazzo, una lieve quota di ansietà: come cominciare, da dove cominciare? E' importante ogni cenno, ogni sorriso, ogni interpunzione per fare in modo che la narrazione inizi, non importa da quale punto della storia. Ma che inizi. Poi il suo svolgimento verrà gradualmente a scorrere, ad andare avanti e indietro o restare al presente, spesso a confondersi, a ingarbugliarsi. Saranno le domande che il terapeuta comincia a porre, il suo sottolineare qualche informazione, i suoi commenti. Ma soprattutto il clima che riesce a creare, la risonanza emotiva che riesce a trasmettere.

Nei primi incontri si consolida la conoscenza. Non solo del problema, ma delle reazioni, del linguaggio, delle modalità espressive che accompagnano il motivo del disagio vero e proprio , della capacità di comunicazione. Si comincia a delineare un quadro, a partire dalla cornice , poi lo sfondo, e fare emergere via via i tratti, le figure, i particolari, i colori, le sfumature. La stanza intorno assiste a questo particolare processo di conoscenza: lo avvolge, ne è parte integrante, testimone di una intimità sempre più profonda. Quello che viene definito setting è lo spazio, il tempo, la durata in cui quell'incontro avrà luogo.

Ma che relazione è quella terapeutica? Si dice che sia una relazione di aiuto. Ma non basterebbe un compagno, un amico, un padre? Perchè è così speciale? In realtà è una relazione complessa nella quale si intrecciano aspetti affettivi, emotivi, erotici, intellettuali che continuamente rimandano a ulteriori relazioni senza che queste ultime possano mai essere sostituite del tutto dalla prima: per quanto questi aspetti siano presenti e vivano nella stanza della terapia, tuttavia non si può essere del tutto amici, nè madri o figli, né padri o maestri, né innamorati o amanti. Eppure, come in una sequenza di specchi a tratti deformanti, in ogni relazione terapeutica si muove tutto questo. Ne è la linfa, il nutrimento, il motore.

E il terapeuta? Chi è questo mentore che ascolta, prende, sostiene, domanda, rielabora , restituisce? Di sé parla poco, quasi niente a volte, lasciando forse intendere di essere sapiente, perfetto, illuminato, arrivato. Arrivato dove? Come afferma Jung, nessuno può andare al di là di dove sia giunto esso stesso. E' difficile definire il suo ruolo. Ogni terapeuta porta in campo non solo la sua preparazione e le sue conoscenze, ma ancor di più la sua esperienza. Ognuno ha il suo modo per farlo, ognuno è lì con la sua personalità, il suo carattere, le sue ferite, i suoi travagli: il buon esito non è per nulla garantito. E' un lavoro lungo e faticoso che coinvolge entrambi. Così come lo stesso terapeuta può essere amabile e comprensivo per l'uno, per l'altro potrà essere arrogante e distruttivo. Dipenderà da cosa si cerca in lui. Dalle aspettative e dagli investimenti affettivi. Dall'intreccio di fattori intellettuali ed emozionali, dalla fiducia, dalle pretese, dalle illusioni. Sono questi gli aspetti che in terapia giocano un ruolo fondamentale, più ancora di quanto esplicitamente verbalizzato.
Essendo io una donna, sono stata vissuta molto spesso come una madre accogliente e benevola; altre volte come una madre fredda e distante. In entrambi i casi ero sempre io: ma se per l'uno ero il contenitore accogliente dove rifugiarsi, per l'altro ero lo specchio di esperienze passate, l'ombra di relazioni infelici. A volte sono stata confusa con un'amica, scambiata per una sorella, desiderata come un'amante.

Si, perchè poi c'è l'Eros. Ritengo che in ogni terapia una certa quota di eros sia indispensabile. Senza amore per la conoscenza, senza attrazione per il lavoro introspettivo, senza una buona dose di umana simpatia l'uno per l'altro, la terapia diventa luogo di esercitazione intellettualistica, senza spessore e senza anima. Non può esserci terapia se non c'è desiderio. Desiderio di cambiare prospettiva, di entrare nei territori sconosciuti di sé stessi, di mettersi in gioco e di confrontarsi con l'Altro. L'altro in sé, l'altro fuori da sé. Ciò che è veramente terapeutico nell'incontro tra uno psicoterapeuta e il paziente è la relazione stessa. Una relazione dove entrambi sono attori di un processo che non conoscono, e di cui faranno entrambi parte. Certo è necessario che il terapeuta abbia in sé la capacità di riconoscere ciò che sta accadendo, che abbia la competenza di sapere come muoversi. Ma inevitabilmente ne sarà coinvolto, senza che questo coinvolgimento travolga il setting, ma piuttosto lo sostenga, lo consolidi. Se il paziente prova dei sentimenti di qualunque natura verso il terapeuta è inevitabile che questi non soltanto li debba accettare, ma che debba sostenere le proprie reazioni, i sentimenti che in lui suscitano. Si chiama controtransfert e, come il transfert, è di fondamentale importanza per la relazione di cui stiamo parlando. A volte accade che questo accadimento emotivo vada oltre la terapia stessa. L'innamoramento tra paziente e terapeuta è un tema discusso e dibattuto. Della sua eventualità, ogni terapeuta è consapevole. E' a conoscenza anche della sua frequenza, molto maggiore di quanto si pensi. In una situazione intima come quella della stanza della terapia i sentimenti umani non possono certo essere sospesi, ma semmai amplificati. L'idealizzazione, la fantasia, l' immaginazione favoriscono l'attrazione, il desiderio di vicinanza anche sessuale.
E' la gestione di questi sentimenti che può essere produttiva per la terapia o, al contrario, determinarne la conclusione. E non sono solo le “regole” del setting che possono risolverne la complessità , ma la scelta cosciente e motivata del comportamento da seguire. C'è un'etica professionale che detta le norme da seguire, ma c'è la pressione del desiderio con la quale ogni terapeuta si troverà a combattere. La risoluzione del conflitto determinerà il destino della terapia che spesso in casi del genere volgerà al suo termine.

In altri casi è l'aggressività ad entrare in campo. Il terapeuta diventa oggetto di attacchi di ogni genere, di svalutazione o di ostilità manifesta. Quando le resistenze a mettersi in gioco sono pesanti, quando il cambiamento fa paura ostacolandolo in ogni modo, è facile proiettare sul terapeuta la rabbia per l'inefficacia della terapia, per l'incapacità a raggiungere gli obiettivi. Anche in questo caso il terapeuta è sottoposto alla carica delle reazioni emotive proprie ed altrui, sostenendole con il giusto distacco, interpretandone le motivazioni, senza che questo non comporti uno sforzo di non poco conto. E anche in questo caso , non è facile ricondurre i sentimenti ostili all'agire terapeutico, sostenendo l'inevitabile senso di frustrazione che gli stessi possono generare, senza che questi atteggiamenti determinino la conclusione del rapporto.

Ho voluto tratteggiare un po' quello che è il rapporto terapeutico, il suo delinearsi e il suo complicarsi. Vorrei concludere con un altro argomento anch'esso complesso: il suo termine.
Nel saggio Analisi terminabile o interminabile S. Freud afferma che un'analisi non si completa mai, ma che ad essa si può porre termine se ricorrono determinate condizioni. Ad esempio se certi obiettivi sono stati raggiunti, o se la persona sente che non può andare oltre, ma ha raggiunto quel certo grado di equilibrio che le consente di continuare da sola. In realtà ad un certo momento la figura stessa del terapeuta si interiorizza producendo nel paziente una funzione critica che lo aiuta ad andare avanti. 

"l'analisi deve determinare le condizioni psicologiche più favorevoli al funzionamento dell'Io" Freud cit.

Sono questi i casi “risolti” nel senso che, seppure incompleta (perchè l'analisi dell'inconscio è effettivamente interminabile), ha tuttavia raggiunto dei risultati soggettivamente auspicabili, fermo restando che una buona terapia continua ben oltre la conclusione degli incontri, ed è sempre possibile riprenderla in ulteriori momenti nei quali il supporto del terapeuta appaia necessario. Pertanto una buona terapia rimane nella memoria del paziente come parte integrante della propria storia. Altra cosa è la conclusione di una terapia dovuta alle resistenze irrisolte e alla decisione unilaterale del paziente che non intende più continuare gli incontri. Per quanto il terapeuta ha il compito di interpretare il contenuto delle resistenze che sono alla base di tale decisione, non può certamente violentare la libertà personale di chi non è più disposto a continuare il lavoro terapeutico. Alla base delle resistenze c'è sempre il rifiuto del cambiamento, l'attaccamento ai propri atteggiamenti, alle proprie convinzioni, in definitiva alla propria malattia. Sono questi i casi in cui una terapia non ha prodotto quella funzione trasformativa che è il fondamento di ogni relazione di cura.

Per concludere, tornando al tema di questa breve esposizione, la relazione terapeutica, pur nella diversità dovuta ai molteplici riferimenti teorici, è una relazione dalla cui complessità deriva il suo svolgimento, il suo fare, la sua finalità trasformativa, aggiungendo che la stessa modifica sempre entrambi i suoi protagonisti, perchè ha a che fare con i più profondi sentimenti umani.














Nessun commento:

Posta un commento